Innovare vuol dire collaborare: il valore del Capitale Relazionale
L'insieme dei legami sociali che interconnettono le persone e, quindi, le organizzazioni, raccontato da Benedetto Buono, autore insieme a Federico Frattini del libro "Innovationship - L'innovazione guidata dal capitale relazionale"
Benedetto Buono
Dagli ultimi dati forniti dall’Osservatorio sulla Digital Innovation si evince una crescita della necessità delle aziende di adottare approcci collaborativi per lo sviluppo; infatti, già l’83% delle grandi imprese fa Open Innovation (il 45% possiede addirittura un budget dedicato) e il 52% collabora con delle startup mentre, per quanto riguarda le PMI, la percentuale si attesta all’11%. In particolare, il 41% delle imprese ha creato un reparto o un ruolo destinato alla gestione dell’innovazione, il 31% ha team di progetto dedicati a essa, mentre il 9% ha instaurato un comitato di innovazione interfunzionale. Sull’argomento, Benedetto Buono e Federico Frattini hanno scritto un libro, edito da Egea, intitolato “Innovationship - L’innovazione guidata dal capitale relazionale”. Ce ne parla proprio Benedetto Buono (protagonista di DailyOnAir - The Sound Of Adv).
Che cosa si intende per capitale relazionale e che vantaggi può portare a livello innovativo?
«Il capitale relazionale è l’insieme dei legami sociali che interconnettono le persone (e, quindi, le organizzazioni). Tali legami sono produttori di vantaggi individuali e collettivi. Il capitale relazionale è costituito dai legami sociali che interconnettono le persone e che producono vantaggi individuali e collettivi. Il capitale relazionale è a tutti gli effetti una forma di capitale (alla stessa stregua del capitale finanziario e di quello tecnologico) e come tale deve essere inteso e approcciato nell’uso. Permette di navigare il mondo VUCA contemporaneo, recependo input e idee che nessuna organizzazione, per quanto grande, può trovare al suo interno, a tutto beneficio della capacità di leggere scenari, mercati e consumatori e, in definitiva, innovare».
Come si comporta l’Italia imprenditoriale sul tema?
«Molto bene, direi. L’Italia è certamente uno dei Paesi nel quale la corporate culture è più fertile nei confronti della tematica relazionale, al pari di paesi economicamente e finanziariamente avanzati, come US e UK: ciò che manca, da noi e altrove, è invece un approccio strutturato e strategico alla costruzione e alla gestione del capitale relazionale per l’innovazione. Il libro è ricco di casi imprenditoriali italiani di successo in tal senso. Abbiamo per esempio raccontato i casi di Wallife, Opinno, Gellify, Modefinance, Talent Garden, Eggup, ELIS Innovation Hub, PoliHub, eFM, ADL Consulting, Hub Innovazione Trentino Fondazione, Isinnova, Poste Italiane, BlueThink, AdR, Homepal a better place, Contents.com, ACEA ed Eni».
Quali sono le collaborazioni più frequenti?
In ottica innovativa e strategica, le relazioni si dipanano nel continuo della vita e dell’operatività di una qualsiasi organizzazione. Nello specifico, le tre macro-fasi in cui le relazioni (e, quindi, le collaborazioni in senso lato) diventano più importanti per la capacità di produrre innovazione, sono la costruzione, l’attivazione e l’utilizzo del capitale relazionale stesso. Tutte le collaborazioni e le relazioni di successo si basano, in ogni caso, sulla fiducia, al di là del momento in cui avvengono o del luogo, interno o esterno all’organizzazione».
Quale potrebbe essere il modello più concreto?
«Non esiste, ovviamente, una ricetta valida per tutti e in qualsiasi contesto. Nel nostro libro, abbiamo però provato a tracciare un modello di gestione strategica del capitale relazionale. In qualsiasi organizzazione è possibile e necessario adottare un approccio strategico alla gestione del capitale relazionale, in particolare per utilizzarlo a supporto delle iniziative di innovazione che si intendono promuovere. Le principali attività che occorre svolgere per gestire strategicamente il capitale relazionale sono: (i) la definizione di obiettivi e target di sviluppo del capitale relazionale stesso; (ii) l’analisi del contesto e la pianificazione delle linee di azione; (iii) l’allocazione delle risorse per implementare tali linee di azione; (iv) il monitoraggio e la valutazione dei risultati ottenuti».
In quale settore si palesano i casi più virtuosi?
«Ci sono numerosi casi di successo, italiani e internazionali, di piccole, medie e grandi organizzazioni che, in ogni settore, hanno innovato con successo partendo da una gestione lungimirante e illuminata del capitale relazionale. I settori sono davvero trasversali, e vanno dalla finanza al mondo delle startup deep tech e fino, addirittura, al public affairs e lobbying».
Chi dovrebbe giovarsene maggiormente e chi è ancora indietro?
«Qualsiasi organizzazione, di qualsiasi dimensione e in qualsiasi settore può (e deve) beneficare di un approccio strategico al capitale relazionale per l’innovazione. Nel nostro libro, lo diciamo chiaramente, dati e teorie alla mano. È ancora indietro, e resterà sempre più indietro, chi non investe nella formazione verso queste tematiche, chi non alza la testa con genuina curiosità per osservare i cambiamenti in atto nel mondo e chi crede di poter restare rilevante da solo e, semmai, continuando a fare quello che ha sempre fatto, come lo ha sempre fatto. Il contrario dell’Innovationship che io e Federico abbiamo teorizzato».