Autore: Redazione
31/01/2017

Stati Uniti: ricavi editoriali da piattaforme terze al 14% di quelli totali

A confermarlo è uno studio di DCN condotto su alcuni dei suoi premium publisher, tra cui Bloomberg , Financial Times e NYT: YouTube la più remunerativa, ma i costi sono troppo alti. E non ci sono ancora sufficienti e adeguate soluzioni per monetizzare la presenza esterna

Stati Uniti: ricavi editoriali da piattaforme terze al 14% di quelli totali

Sono ormai sempre di più gli editori che hanno adottato un approccio multi-piattaforma, veicolando i propri contenuti all’interno di piattaforme terze come Facebook, Google e Snapchat. Tuttavia questa modalità non sarebbe sufficientemente remunerativa: secondo uno studio di Digital Content Next (DCN), nel corso dei primi sei mesi dell’anno passato 17 dei suoi publisher hanno generato ricavi ‘medi’ per 7,7 milioni di dollari dalla voce “piattaforme terze”, il 14% di quanto sono riusciti a portare a casa. E il rapporto con queste piattaforme è ambivalente: se, infatti, YouTube è riuscito a mettere in piedi un sistema in grado di accontentare i creators, spesso su Facebook e Snapchat gli editori non hanno trovato modelli soddisfacenti.

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Editori davanti a una dicotomia

Certo, prodotti come Accelerated Mobile Pages, Instant Articles o la sezione Discover di Snapchat consentono di allargare il proprio bacino di utenti, eppure la cessione di parte degli introiti è un’ulteriore questione da affrontare per gli editori di oggi. Secondo Business Insider, che è riuscita a ottenere una copia di questo report condotto per utilizzo interno, gli editori si trovano davanti a una dicotomia: da una parte l’obbligo di essere presenti all’esterno, entrando in contatto con il proprio pubblico e stimolandolo a visitare il proprio sito o iscriversi a una newsletter; dall’altra la cessione del pieno controllo della monetizzazione e soprattutto dei dati di comportamento, utili per potenziare i propri sistemi di targeting.

Come riflesso dell’attuale soluzione troviamo un comparto editoriale in sofferenza non solo sulla carta stampata, ma anche su internet. In America nei primi sei mesi dell’anno scorso Facebook (+43%) e Google (+60%) hanno portato a casa rispettivamente 5,7 e 17,4 miliardi di dollari mentre il giro d’affari riconducibile alla restante raccolta pubblicitaria è calato da 9,9 a 9,7 miliardi (fonte PWC per IAB).

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La situazione nel BelPaese

Nel nostro Paese, la presenza di Facebook e Google ha addirittura un’influenza positiva sul mercato pubblicitario nel suo complesso, e non solo in quello internet che, relativamente al perimetro monitorato da FCP-Assointernet, negli undici mesi ha registrato una contrazione della spesa del 2,5% a circa 406 milioni. In Italia le entrate mobile delle concessionarie di FCP-Assointernet si attestano attorno ai 38 milioni di euro, con un balzo in avanti del 110%. Considerando le stime social e search di Nielsen, il -2,5% si ribalta e si trasforma in un + 8,2%. L’impressione è che nel breve periodo non sia possibile contrastare il duopolio di Facebook e Google, specialmente quando si parla di mobile, il media in cui le audience trascorrono la maggior parte del tempo.

YouTube è la piattaforma più remunerativa

Tornando allo studio, risulta particolarmente interessante osservare le performance di ogni singola piattaforma. In testa si piazza YouTube, che nella prima metà del 2016 è valso 773mia dollari per ciascun premium publisher. Seguono Facebook, con una media di 560mila dollari, Twitter (482mila) e Snapchat (192mila). L’analisi è stata commissionata da DCN a Powers Media & Entertainment Consulting per raccogliere informazioni dai suoi  membri, tra cui Bloomberg, Business Insider, ESPN, Financial Times, NBC, New York Times e Washington Post, con l’obiettivo di fare chiarezza sulle strategie di monetizzazione dei contenuti su piattaforme terze. E non contiene informazioni finanziare relative al singolo editore ma soltanto delle stime “medie” per ciascuna delle realtà esaminate. Il report è stato condotto per uso interno, ma Bloomberg e Business Insider sono riusciti a ottenerne una copia.

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Monetizzazione insufficiente

In sintesi, l’indagine indica che, nonostante la gran parte dei publisher sia impegnata a rafforzare la propria presenza al di fuori del proprio sito, le piattaforme di distribuzione spesso non forniscono sufficienti possibilità di monetizzazione per coprire la produzione degli stessi contenuti di qualità di cui hanno bisogno per avere credibilità e successo tra utenti e inserzionisti. E anche il tema del coinvolgimento del pubblico è cambiato: le piattaforme terze fanno da ponte e disintermediano i rapporti con l’audience.

Il report ha individuato, poi, le criticità più importanti da affrontare in ciascuna piattaforma

  • Facebook non offre prodotti pubblicitari video per le televisioni né l’abilità di integrare le capacità di ad serving e strumenti di misurazione di terze parti. Stando a voci sempre più insistenti la società dovrebbe presto aprire ai mid-roll, permettendo a publisher e creators un ritorno sugli investimenti nella produzione di contenuti. Contenuti che però dovranno essere più lunghi e quindi ancora più impegnativi da impacchettare e servire all’enorme platea del social. Il discorso è valido anche per Facebook Live, ancora impossibile da monetizzare se non attraverso gli attuali e ristretti test. A Live viene anche contestato di non creare larghe audience in concomitanza dei grandi eventi.
  • Instant Articles ha diverse restrizioni sul numero e la tipologia di annunci, regole più severe rispetto ai siti proprietari, dove si guadagna naturalmente di più e si raccolgono più informazioni sull’audience. Inoltre Instant Articles è stato oggetto di alcuni degli errori di misurazione riscontrati nei sistemi di reportistica di Facebook.
  • Bisogna riconoscere che Facebook è stata l’azienda che negli ultimi mesi ha provato a stringere legami più solidi con il mondo editoriale. Prova ne sono la nomina di Campbell Brown a head of news partnerships e gli sforzi nello sperimentare possibilità come i mid-roll. Anche sul campo delle bufale, Facebook ha intrapreso le prime importanti azioni, aprendo a sistemi di verifica esterni e impegnandosi a segnalare con tempestività le notizie false.
  • Google AMP sta guadagnando il favore degli editori della carta stampata, ma non è terreno fertile per i broadcaster. Il motore di ricerca, tra tensioni e veri e propri scontri con l’ecosistema media, ha finanziato progetti editoriali anche italiani attraverso Digital News Initiative. Il problema delle bufale ha riguardato anche Google, che dal giorno dell’elezione di Trump, ha bannato circa 200 siti dal proprio network pubblicitario.
  • Sempre in casa Big G, YouTube sta rafforzando le relazioni con agenzie creative, brand e influencer ed è attiva nell’elevare la qualità dei contenuti. Nonostante ciò, in passato il rapporto con i partner si è complicato in materia di monetizzazione.
  • Twitter non ha avuto un 2016 semplice. La società ha perso quota in Borsa e anche il programma Amplify non è riuscito a dare i risultati sperati. Negli Stati Uniti, però, l’uccellino ha ampliato la soluzione introducendo la possibilità di transare inventory preroll in programmatic con oltre 300 partner.
  • Infine Snapchat ha recentemente introdotto alcuni publisher francesi a bordo di Discover e rinnovato le linee guida in ottica restrittiva in tema di contenuti espliciti e di bufale. Ma per gli editori non c’è controllo nel processo di monetizzazione: Snapchat è passata da un modello revenue share a un altro prestabilito su licenza. E sul breve termine la remunerazione degli investimenti sull’app sembra non essere esaustiva.