Autore: Redazione
28/01/2016

All’E-Commerce Summit lo stato dell’arte del commercio virtuale Made in Italy

Tanti i settori in cui la Penisola presenta eccellenze, ma le pmi faticano ad approccarsi alla vendita online. Manca cultura digitale a supporto dei business. Dall’incontro milanese sono emersi consigli strategici per provare ad aprire nuovi canali e attrarre nuovi consumatori

All’E-Commerce Summit lo stato dell’arte del commercio virtuale Made in Italy

Le potenzialità dell’ecommerce tricolore sono molto vaste. Le eccellenze nostrane in settori come moda, food, lusso, viaggi e cultura sono invidiate in tutto il mondo. Ma sono pochi i brand che sono riusciti ad affermarsi come veri e propri colossi, e questo sicuramente non aiuta la costituzione di negozi virtuali dalla grande risonanza, sporadici casi virtuosi a parte. Serve una strategia e una maggiore cultura del mezzo per guadagnarsi uno spazio tra i grandi marketplace internazionali. La seconda edizione dell’”E-Commerce Summit, E-Commerce e Innovazione Digitale, Un’opportunità per l’Italia”, che si è tenuta ieri a Milano, è stata l’occasione per avviare una dialettica utile a tutti gli attori del segmento. Il primo tema portato sul palco è la salvaguardia dell’originale, e Roberto Liscia, presidente di Netcomm, ha subito raccontato che per scongiurare episodi come la replica di un operatore del fashion italiano, a cui hanno copiato sito e prodotti, «Netcomm si sforza a livello europeo sul tema del trust mark. Abbiamo trovato un accordo con il garante europeo per il riconoscimento del trustmark». Inoltre «cambia il comportamento del consumatore, innovazione e customer care saranno le direzioni che dovranno prendere i brand nel 2016. Funzioneranno meglio, poi, i prodotti che danno gratificazione nell’utilizzo, più che nel possesso» aggiunge Liscia. «Il digital ha comportato un allargamento del campo relazionale. L’87% dei possessori di un device mobile, infatti, si connette entro 15 minuti dal risveglio. È facile in questo modo raggiungere i consumatori, ma bisogna capire che strategia utilizzare. In primo luogo, è importante creare la compenetrazione tra esperienza digitale e fisica: la product experience va creata attraverso un ping pong tra tutti i touchpoint. Secondo punto importante è la ridefinizione di “fidelizzazione”: la loyalty è sempre più spesso definita dalla miglior consumer experience, e questo porta anche a prendere come benchmark competitor indiretti ma con una stessa idea di fidelity. A seconda del brand e dei suoi valori bisogna valutare un approccio basato sull’affezione e sulla partecipazione oppure sulla vendita a molti. Nel primo caso, riagganciandosi al concetto di allargamento del campo sociale, è possibile creare una rete relazionale. Un esempio di questo è Nike, che permette la condivisione delle performance sportive sui social e organizza eventi. Chi inizia invece dovrebbe individuare prima di tutto un digital footprint, che spieghi il brand in rete. Poi, appoggiarsi a piattaforme esistenti, a marketplace che offrano supporto per la vendita online. Successivamente saranno in grado di prendere in mano completamente il brand, compreso lo shop. Il digital è un’opportunità per l’Italia, perché a livello di ecommerce è un canale sottosfruttato, e come tale qualcuno se lo prenderà» spiega Angelo D’Imporzano, senior managing director di Accenture. Fashion La moda è sicuramente uno dei settori nostrani più rinomati e richiesti. Ma non si esprime ancora al massimo. «La industry non esprime ancora il suo potenziale. Quasi tutte le aziende si stanno muovendo per offrire esperienze omnichannel complete, ogni canale dev’essere un punto di contatto che l’azienda deve gestire armonicamente nella sua strategia. Nel passaggio da retail fisico a digitale, spesso è necessario cambiare la struttura dell’azienda. La gestione tradizionale diventa un vincolo perché non riesce più a soddisfare le richieste dei consumatori. L’acquisto non può più essere legato al punto di contatto, l’utente deve poter comprare e comunicare da tutti i canali possibili. Per costruire un business efficace, poi, bisogna prepararsi al contatto con l’estero: tra un paese e l’altro cambiano le experience richieste, aumenta la complessità strategica e si incontrano frizioni legislative. L’azienda non deve trovarsi impreparata davanti ai problemi normativi che può incontrare. In ogni caso, non esistono difficoltà non aggredibili» ha spiegato Michele Raballo, interactive ecommerce lead di Accenture Digital. «Ci sono tre grandi trend in questo settore: parlano tutti di ecommerce, ma in pochi ne hanno una visione, per questo si stanno delineando figure di supporto come il chief digital officier; l’ecommerce va adoperato come un misto di comunicazione, marketing e fattore commerciale; le ricerche di personale si fanno sempre più specifiche, perché inizia ad esserci una specializzazione importante. Resta il fatto che manca una cultura digitale nel settore, e sopravvive una titubanza nella digitalizzazione dei business per paura di grandi spese, soprattutto psicologiche» aggiunge Andreas Schmeidler, country manager Italia di vente-privee. Roundtable tra i colossi Pietro Scott Jovane, ceo di Banzai, Danilo Iervolino, presidente di Pegaso, Andrea Ghizzoni, country director di WeChat Italy, Sylvain Querne’, head of marketing, Facebook Italia, Stefano Barrese, head of sales and marketing unit di Banca Intesa SanPaolo, Fabio Vaccarono, managing director di Google Italy e Enrico Sponza, presidente di Consorzio Movincom si sono seduti uno di fronte all’altro per fare un confronto sulle visioni dall’alto delle loro diverse leadership. «La Gran Bretagna, che ha una popolazione numericamente simile alla nostra, ha la rete più veloce del pianeta. La Germania, che ha un numero simile al nostro di pmi, riesce a offrire un terreno molto più fertile per il loro business. La Francia ha una capacità di estrazione di valore dal web doppia alla nostra. Il problema che ci frena è culturale. Il 25% delle pmi che abbracciano il digital non trovano risorse sufficientemente preparate che li supportino. Siamo davanti alla creazione di un milione di posti di lavoro, ma nessuno ha le capacità per occuparli» comincia Vaccarono. «Consultiamo Facebook, in media, 14 volte al giorno, gli accessi al mese sono 27 milioni, 23 da mobile. Social ed ecommerce sono molto collegati, e questo rappresenta una grande opportunità per trovare persone pronte a navigare sul web. I nostri prodotti permettono agli inserzionisti di ottimizzare gli investimenti, grazie alla precisa targetizzazione» aggiunge Querne’. «Per battere i grossi player esteri bisogna interpretare il local feel. Capire come funziona la ricezione della merce, le portinerie, i magazzini. Ma anche la reticenza al pagamento con la carta di credito, sarà un po’ arretrato ma qui in Italia a volte fuziona ancora così. Abbiamo aggiunto una faccia all’ecommerce» rispone Jovane. «Bisogna avere pazienza, l’onda prima o poi arriva. Qua si parla di ecommerce, in Cina di come il social commerce sia rubando fette di business al retail e all’ecommerce stesso. Certo loro non avevano la linea 56k, hanno scoperto la rete col mobile. Noi abbiamo creato una unit italiana per spiegare come funziona il loro mercato, disponibile anche a fare alle aziende nostrane da retail. I brand italiani partono sempre un po scettici ma poi si applicano alla comprensione di questi strumenti» spiega Ghizzoni. «Negli ultimi 3 anni e mezzo abbiamo speso molto per l’educazione digitale delle pmi, realizzando un gran numero di progetti. Fondamentalmente in Italia c’è un problema di produzione. Le aziende sono ottime, ma piccole. Internet ci suggerisce che anche i piccoli, ora, possono competere con i grandi» continua Vaccarono. «Il bombardamento pubblicitario su Facebook non è più efficace. Ora bisogna puntare sulla rilevanza, capire cosa vogliono gli utenti. Il mobile, che è ormai lo strumento più utilizzato per connettersi, permette una sola attività alla volta, un solo programma può essere aperto sullo schermo. Se l’adv non è rilevante, e viene visto come un’interruzione, sicuramente il brand ne risentirà. Chi fa adv si è accordo dell’importanza della targetizzazione» conclude Querne.  <