Tech, sostenibilità, people & culture: Aton racconta le prospettive del nuovo mercato
Incontro con la tech company trevigiana che ha chiuso l’anno con un fatturato di 23 milioni e punta ai 50 milioni di euro entro i prossimi tre anni. Le parole del founder e CEO Giorgio De Nardi
Giorgio De Nardi
Cosa serve, nel nuovo mercato “preso d’assedio” dall’innovazione e dai continui risvolti legati all’AI, per garantire la continuità del business? Una profonda conoscenza sia del lavoro del personale di negozio sia della tecnologica e della gestione dei software. È questa l’idea di base di Aton, tech company con headquarter a Villorba, nel Trevigiano, operativa nel settore digitale-informatico. Una struttura che sviluppa soluzioni per la trasformazione digitale sostenibile delle vendite omnichannel e dei processi di tracciabilità e supply chain aziendale. Si affianca alle imprese con servizi di supporto internazionali e copertura su tutti i fusi orari, 365 giorni all’anno. Tra i clienti, top player nel settore del fashion e del retail, dell’industria, della grande distribuzione organizzata e del settore energy. Per venire incontro alla rinnovate esigenze del momento, l’azienda ha deciso di programmare un “AI store assistant” interno, potenziato dall’intelligenza artificiale, che ha raccolto tutti i documenti (tra questi, i manuali utente e tecnici, schede, flussi operativi), le conoscenze e le prassi necessarie per gestire variabili di ogni genere. Di innovazione, italiana e internazionale, di progetti ed evoluzioni parliamo con Giorgio De Nardi, founder e CEO del gruppo.
Come nasce Aton e come si evolve?
«Fondai Aton nel 1988. All’epoca ero stanco degli ambienti lavorativi tossici, troppo competitivi. Già a quel tempo la società si occupava di mobilità, di dati, di device. Cominciammo a lavorare sulla tracciabilità delle merci e della loro vendita, entrammo nel campo del largo consumo e costruimmo i nostri primi software utili per ottimizzare i vari processi aziendali. Da lì la cosa si è evoluta ma sempre, ci tengo a precisarlo, seguendo precisi schemi etici. Oggi Aton può contare sull’attività di 240 persone e ha raggiunto i 23 milioni di fatturato. Continuiamo ad assumere, a investire in soluzioni digitali, soprattutto per aziende enterprise, affinché riescano sempre a tracciare vendite e merci. La nostra è una società Benefit, nominata ‘Great place to work’, valorizza l’impatto economico e mette al centro le persone, come dimostrato dal consueto report annuale che certifica la qualità del lavoro. Le nostre soluzioni puntano a eleminare gli sprechi, il che significa che non devono esserci errori negli stock e nei trasporti».
Gli ambienti di lavoro tossici erano una regola anche decenni fa o la cosa si è concretizzata solo in tempi moderni?
«C’erano anche prima, si sono evoluti. Per cambiare marcia l’imprenditore non dovrebbe essere considerato o muoversi come un rapace e le aziende dovrebbero attuare strategie ‘gentili’ verso persone e ambiente. Purtroppo si tratta di una cultura non è ancora diffusa. L’ambito imprenditoriale può apparire ancora molto spregiudicato. Certo, viviamo nell’era della sostenibilità, ma spesso si tratta solo di facciata, di greenwashing. Se le imprese riuscissero a operare una reale svolta al netto dell’aspetto economico, la nostra vita potrebbe cambiare, perché la vera sostenibilità porta solidità all’azienda, che così diventa sicura e più performante».
Qualcosa ha cominciato a cambiare nell’ultimo lustro…
«Certo, tra pandemia e crisi internazionali si è arrivati alla famigerata accelerazione tecnologica e si presa consapevolezza su quello che dovrebbe rappresentare il ‘nuovo’ lavoro, che va scelto e non deve essere costrittivo. Un fattore decisivo in una crescita aziendale è la capacità di risultare attrattivi. In Italia purtroppo siamo ancora indietro, con un grado di maturità basso, legato all’evoluzione del stesso Paese. Negli stati nordici si avverte un maggiore senso di fiducia e responsabilità tra lavoratori e azienda, cosa che non abbiamo ancora raggiunto».
Come è cambiata Aton negli ultimi anni?
«Abbiamo sviluppato la crescita per linee interne, focalizzandoci su persone, prodotti e ricerca- sviluppo. Numerose sono state le acquisizioni e l’accelerazione proseguirà con l’obiettivo di crescere e raggiungere un fatturato di 50 milioni entro i prossimi tre anni. Il segreto sta nel mindset orientato alla crescita dei nostri addetti che chiamiamo ‘aton people’, con attività di sviluppo personale, tra hard e soft skills, con l’intento di migliorare la vita anche al di fuori del lavoro, con un decisivo passaggio dall’ego al NOI».
A proposito di accelerazioni e trasformazioni, come affrontate l’innovazione e l’AI?
«Con la costruzione e l’adozione di tecnologie fruibili, sicure, con applicazioni plug and play. L’intelligenza artificiale serve per arricchire le nostre soluzioni che sono legate al retail, tra luxury, food e moda; forniamo assistenza diretta nei punti vendita, offriamo servizi in lingua in tutto il mondo; tutti elementi che abbiamo sempre portato avanti con persone, ma ora con l’AI possiamo migliorare le attività, creare un vero supporto, il che vuol dire identificare più velocemente tutti gli elementi che possono aiutare gli addetti ai lavori, tra lingua e automatismi. Siamo quindi passati dai primi tentativi di chatboat, imperfetti nella loro meccanicità al Global Store Assistant, soluzione che elimina i problemi di comprensione linguistica, della tecnologia, supera le difficoltà legate ai differenti fusi orari e mette al centro l’aspetto umano. Siamo convinti che l’AI produrrà nuove possibilità occupazionali; cambieranno le competenze, serviranno persone maggiormente specializzate, cosa che spingerà l’ambito formativo e gioverà a tutto lo spettro culturale del Paese. Ma serve un cambio di mentalità: oggi in Italia, in relazione all’AI, si parla ancora poco di opportunità e intanto Cina e Nord America corrono in barba ai nostri dubbi. L’intelligenza artificiale non va respinta ma regolata e le leggi esistono».
Quali settori potrebbero giovarsi di più dei favori dell’AI?
«Come detto, noi operiamo nei settori del food, luxury e fashion, siamo sempre più protagonsti anche negli ambiti del farmaceutico e dell’oil & gas attraverso applicazioni intelligenti utili per organizzare vendita e gestione. Il retail, con i suo enormi volumi e dati è il settore che si sta muovendo meglio sul fronte dell’innovazione, tra strategia e progettazione, realizzazione e controllo. L’AI previene la catena del valore».
Cosa si potrebbe fare di concreto per passare a una dimensione più moderna?
«Credo molto nella necessità di uscire da una forma di nanismo italiano e per questo penso alla creazione di un insieme di aziende che possano competere a livelli internazionali. Il tessuto industriale nazionale è sempre più preso d’assalto da stranieri, sono poche le aziende italiane che riescono a vendere il proprio software, siamo quasi degli integratori di idee internazionali. Serve un vero gruppo di eccellenze italiane. E allora: acquisire, cooperare, ma sempre all’interno di un progetto industriale unico. Aton può contare su diversi clienti internazionali, ma è consapevole che occorra una dimensione più grande, con una capacità di offerta che deve crescere».
I prossimi obiettivi?
«Siamo al lavoro su una piattaforma che incorpora funzioni di AI dalle vendite alla supply chain, che assiste tutta la catena di valore delle aziende, un progetto che vede all’opera 35 persone e che ha già fatto importanti acquisizioni; un’integrazione completa e verticale per il settore merceologico. E poi, la citata costruzione di un gruppo di lavoro che sappia pensare in chiave internazionale e il costante investimento sulle persone, che non sono semplici risorse umane, noi preferiamo chiamarle people and culture».