Autore: Redazione
05/02/2018

Dalla Spagna le Stories che conquistano i millennials

Intervista esclusiva a Jorge Madrid e Marìa Jiménez, alla guida della nuova divisione di Condé Nast per i branded content

Dalla Spagna le Stories che conquistano i millennials

di Claudio Semenza
A Madrid, al numero 9-11 del Paseo de la Castellana, millennials e cacciatori di millennials convivono sullo stesso piano. Siamo nella sede della Ediciones Condé Nast, che ospita anche il Condé Nast College of Spain. Studentesse e studenti, giunti da tutta Europa e dall’America Latina per imparare i segreti della comunicazione di moda e design, incrociano nei corridoi i professionisti che lavorano a Vogue, GQ, Glamour, Vanity Fair. E sognano di diventare come loro. “Noi invece proviamo a rincorrerli”, ammette Jorge Madrid, direttore di Condé Nast Stories, la divisione dedicata ai branded content e lanciata nell’estate del 2017.
Voglia di branded content
L’idea di Stories è nata dai risultati di una ricerca sulle strategie di comunicazione più gradite alle aziende: «I branded content sono una realtà - dice Madrid -. Molti brand li hanno adottati e chi non lo ha ancora fatto ci sta pensando». Gli ostacoli da abbattere per convincere gli scettici (pochi) sono due: «Le aziende vogliono contenuti di qualità e soprattutto vogliono poterne misurare l’efficacia. La formula che proponiamo toglie ogni dubbio: garantiamo la qualità di Vogue, Vanity Fair e di tutte le nostre testate, ma a ciò affianchiamo un sistema di obiettivi, monitoraggio, verifica puntuale e controllo dei risultati. Contenuti e dati: è questo il segreto per conquistare la fiducia dei brand».
Qualità e dati
«Siamo un punto di riferimento nel mondo del lusso – dice María Jiménez, da oltre 15 anni in azienda, ora vice direttore di Condé Nast Stories - , ma possiamo realizzare con la nostra struttura contenuti - siano essi testuali, fotografici e video - per ogni brand di lifestyle, automotive, food. Siamo nelle migliori condizioni per offrire ai clienti ciò di cui hanno bisogno. Il nostro vantaggio è che conosciamo le audience, le abbiamo analizzate per anni. Qui in Spagna noi di Condé Nast siamo veterani nel mercato digitale, abbiamo migliorato molto il nostro prodotto grazie ai feedback dei lettori e all’analisi dei dati: sappiamo quali sono i contenuti che funzionano meglio, i temi di maggior successo, quali sono i migliori testimonial per veicolare determinati messaggi. Possiamo mettere tutte queste conoscenze a disposizione dei nostri clienti. E lo facciamo meglio di molte agenzie creative, che – certo – possono realizzare spot spettacolari, ma dal punto di vista editoriale non hanno la stessa sensibilità e competenza di un gruppo media come il nostro».
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Jorge Madrid e Maria Jiménez
Guerra ai “contenuti spazzatura”
«I branded content sono una grande opportunità per i media - conferma Jorge Madrid, già direttore della divisione Custom Solutions che ha curato soluzioni innovative per clienti del livello di Louis Vuitton, L’Oréal o Estée Lauder -, i brand si fidano di noi: l’importante è fare tutto nel modo giusto. Ogni giorno, in internet, ci si imbatte in contenuti “spazzatura”: la nostra offerta va in direzione opposta. Noi siamo ossessionati dal produrre i migliori contenuti per le nostre audience e per i brand che lavorano con noi». «Le redazioni delle nostre testate non ci consentono di pubblicare branded content se questi non rispettano gli standard di qualità – dice Jiménez - Noi vogliamo che i nostri clienti siano soddisfatti del contenuto che prepariamo per loro, ma d’altra parte dobbiamo anche convincere i redattori che quei contenuti sono degni delle nostre testate. Insomma, è come se avessimo due clienti: uno esterno, il brand, e uno interno, le redazioni». «Il trattamento dei dati contribuisce alla qualità dei contenuti – aggiunge Jorge Madrid -. Affianchiamo il brand anche in questo: pianifichiamo la distribuzione: sui nostri siti, su quelli del cliente, sulle piattaforme social. Poi ne monitoriamo l’efficacia, seguiamo l’andamento in tempo reale e apportiamo i necessari correttivi prestando attenzione ai feedback degli utenti».
A caccia di millennials
Una strategia di ascolto, questa, particolarmente indicata per comunicare con i millennials. «Sono loro il target più gettonato tra le aziende, negli ultimi due anni – spiega Jorge Madrid -. Lo scorso anno, per esempio, abbiamo realizzato una campagna per il profumo Loowe 01 con protagonisti proprio i millennials: una generazione sempre connessa, e che utilizza le tecnologie anche per flirtare. Siamo partiti dal test dello psicologo statunitense Arthur Aron, ovvero le 36 domande che generano intimità e “fanno innamorare”. Vogue e GQ hanno selezionato sei ragazzi, sei sconosciuti: tre ragazzi e tre ragazze in linea con lo stile e l’immagine delle testate. Li abbiamo fatti incontrare a due a due, bendati, e abbiamo filmato i loro incontri, le loro domande - le famose 36 domande galeotte - e le loro risposte». Da questa esperienza è nato un mini sito interattivo, che consente all’utente di scegliere i ragazzi da accoppiare e di vedere poi in video i risultati di questi incontri. «Ne è uscita una sorta di webserie di grande successo – spiega Madrid – oltre 2 milioni di visualizzazioni e una best practice importante per Condè Nast e per il cliente». Il segreto per intercettare questo target difficile? «Ascoltare i millennials, imparare da loro, ma soprattutto essere uno di loro – spiega Jiménez -. Non serve, anzi è controproducente, scimmiottare il loro linguaggio, il loro modo di fare e di pensare: in Condé Nast abbiamo molti millennials tra i nostri collaboratori. Sono loro che lavorano sulle campagne destinate a questo target. Solo così funziona».
Una ricetta che funziona
Più in generale, le Stories di Condé Nast al servizio dei brand nascono da un processo ben preciso. «Abbiamo tre tipi di approccio – spiega Madrid -: quello provocative, pensato per provocare; l’entertaining, pensato per intrattenere e divertire e il convincing, che deve convincere, persuadere. Ciascuno con il suo stile e con le sue metriche. Valutiamo di volta in volta quale tipologia di storia adottare. Poi però applichiamo sempre alle storie la nostra intelligenza editoriale: lavoriamo come una newsroom e produciamo contenuti che poggiano su valori condivisi, non semplici spot o pubblicità. Seguiamo le caratteristiche delle nostre audience e, anche quando non creiamo per i nostri magazine, produciamo contenuti di qualità che si adattino ai contesti nei quali saranno distribuiti».