Manager tra risultati e benessere: Cegos Italia racconta la nuova sfida della leadership
Il gruppo leader nella formazione manageriale pubblica un nuovo studio. Alessandro Reati, head of people & culture, evidenzia le difficoltà dei nuovi manager e mette in risalto l’importanza di una leadership empatica, etica e orientata al benessere, capace di integrare performance, innovazione e inclusione
Alessandro Reati
Pare che il 67% dei nuovi manager viva un aumento del carico di lavoro e fatichi a dedicarsi alla dimensione umana del proprio ruolo. Allo stesso tempo, il 68% degli HR segnala carenze nelle competenze relazionali e il 78% dei manager è coinvolto in trasformazioni legate a IA e sostenibilità. Tra performance, innovazione e inclusione, le aziende sono chiamate a sostenere i propri leader nel costruire una leadership più empatica, etica e capace di generare benessere reale. A raccontare l’attuale scenario ci pensa Cegos, che pubblica il Barometro dedicato al settore. Ne parliamo con Alessandro Reati, head of people & culture e HR practice business leader di Cegos Italia (ospite di DailyOnAir - The Sound Of Adv).
Dallo studio emerge che il 67% dei nuovi manager registra un aumento costante del carico di lavoro e quasi uno su due non ha tempo da dedicare alla dimensione umana del proprio ruolo. Come possono le aziende sostenere concretamente questi manager nel trovare un migliore equilibrio tra risultati e benessere del team?
«È una situazione molto diversificata, in base anche al modello organizzativo delle singole aziende. Partiamo da un dato: se abbiamo una robusta quantità di responsabili che si sentono sommersi dal lavoro e hanno anche poco tempo da offrire alle persone che collaborano con loro, il problema non sono tanto i manager in senso stretto, ma il modo in cui all’interno delle aziende progettiamo il loro ruolo».
Come agiscono le aziende in merito?
«Innanzitutto, c’è un tema di revisione dei processi, cosa che porta a eliminare attività a basso valore; e la maggioranza delle aziende tende a farlo. Poi, occorre investire in formazione specifica sulla leadership, quindi sulla capacità di gestire una relazione con i collaboratori in senso lato; e qui, la questione non è semplicemente partecipare a un corso in aula, ma sperimentare dei percorsi, il che significa acquisire di tecniche, supervisionare, comprendere ciò che capita nei gruppi di lavoro reali. Sarebbe bello poter disporre di capi che riescono a interpretare al meglio l’etichetta aziendale, a produrre nel breve e ad accompagnare nel tempo il proprio team. Infine, bisogna avvalersi di indicatori: per fare un esempio, se ci troviamo di fronte a un problema di KPI manageriale, non completi e magari non contenenti anche dei punti relativi alla qualità lavorativa dei gruppi, il rischio è quello di non riuscire a accompagnare concretamente i capi nella gestione. Quindi abbiamo bisogno di metriche più complete, metriche sul benessere dei team. Trasversalmente, è importante ricordare che settare bene le tre diverse aree di azione su citate ci porta dentro al tema del presidio strategico: un manager che non ha tempo per gestire le relazioni con i collaboratori genera turnover, problemi di assenteismo, cali di produttività, e si tratta di aspetti misurabili. Bisogna abbandonare l’idea che gli indicatori siano sempre oggettivi, piuttosto, riguardano ciò che succede all’interno delle singole organizzazioni».
Il Barometro evidenzia che il 68% degli HR ritiene i dipendenti non sempre pronti, soprattutto sul piano delle competenze comportamentali. Cosa accade in un classico ribaltamento dei ruoli? Quali sono le competenze più critiche da sviluppare nei nuovi manager per affrontare con successo le sfide del ruolo?
«Precisiamo, prima di tutto, che il tema non è la persona in senso lato, ma il modo in cui noi invitiamo le persone a interpretare al meglio il proprio ruolo nell’organizzazione. Quindi è un tema, se vogliamo, di pratica produttiva. Detto ciò, il tema del cambiamento delle competenze necessarie, utili per poter lavorare e stare bene insieme nei luoghi di lavoro, riguarda tutti, nel senso che tutti devono essere allenati al contesto, saper riconoscere i segnali di debolezza, di disagio, comprendere come tarare la propria comunicazione. C’è inoltre una questione legata all’allenare la capacità di tutti i dipendenti, ma in particolare dei responsabili intermedi, nella gestione del feedback, tenendo conto che, nel tempo, si creano delle situazioni implicite, poco chiare, senza dimenticare il senso di isolamento, estremamente frustrante all’interno delle organizzazioni. Ultimo elemento di competenza che andrebbe allenato per sostenere un’adeguata interpretazione comportamentale è la capacità di gestire bene la pressione: le nostre sono organizzazioni che devono fare i conti con lo stress; dobbiamo aiutare tutti i dipendenti a gestire le preoccupazioni ed evitare che i manager lo scarichino la tensione verso i collaboratori, ma anche che ci siano dei giochi di pressione orizzontale tra colleghi. Insomma, l’HR che disegna un’organizzazione deve riuscire a bilanciare le strategie aziendali con le dinamiche organizzative».
Il 78% dei nuovi manager è coinvolto in processi di trasformazione come l’adozione dell’IA o la CSR. In che modo il coinvolgimento può rafforzare la loro leadership e contribuire alla trasformazione positiva delle organizzazioni?
«L’intelligenza artificiale è una tecnologia, una delle tante che ci hanno accompagnato dal punto di vista dell’evoluzione organizzativa, ma in generale nel vivere insieme. Per la maggior parte degli intervistati rappresenta un’opportunità, ma la questione più importante è la sua corretta implementazione. I manager devono accompagnare il cambiamento, quindi non dobbiamo più vederli all’interno delle aziende come semplici esecutori passivi, ma devono, per introdurre nuove tecnologie o inedite sensibilità, sviluppare la competenza di change manager, cioè la gestione progettuale delle trasformazioni organizzative; in tal modo, riusciremo ad avere un aumento della loro readership e contemporaneamente una crescita della credibilità concreta quotidiana. Un altro spunto sul fronte AI e delle attività correlate: dobbiamo ricordarci che non possono essere iniziative di facciata, ma devono avere una concretezza legata ai processi disegnati aziendalmente e gli stessi devono essere comunicati alla maggior parte delle persone che occupano l’azienda. Di fatto, c’è un tema legato all’integrità».
Secondo il Barometro Cegos, oltre la metà dei dipendenti italiani ha vissuto episodi di discriminazione legati ad aspetto fisico o età. Quali sono le cause principali di queste discriminazioni e come possono le aziende affrontarle in modo concreto?
«Le aziende hanno la responsabilità di garantire ambienti sani e pratiche di selezione eque e trasparenti. Le principali cause di discriminazione risiedono nei bias e nelle culture organizzative che, nel tempo, hanno normalizzato comportamenti inappropriati. Occorre superare la visione di una contrapposizione generazionale e sottolineare che i pregiudizi possono appartenere a qualsiasi età e che la vera differenza risiede nelle persone e nei contesti aziendali».
Dalla ricerca emerge che solo il 42% dei dipendenti percepisce i propri manager come veri alleati nella lotta alla discriminazione. Che tipo di formazione o supporto ritiene necessario per aiutare i manager a promuovere davvero una cultura inclusiva?
«La promozione di ambienti inclusivi deve partire da chiare politiche aziendali e da un esplicito posizionamento valoriale. Le imprese devono definire protocolli e linee guida che specifichino comportamenti accettabili e inaccettabili, assicurandone la comunicazione e l’applicazione costante. Fondamentale è la formazione continua, orientata non solo alla teoria ma anche all’autoriflessione e al confronto sui propri pregiudizi, con il coinvolgimento di tutti i livelli organizzativi. Di fronte a violazioni dei diritti o dell’integrità delle persone, l’azienda deve intervenire con coerenza, poiché il cambiamento culturale si realizza attraverso azioni concrete e non solo tramite dichiarazioni formali».