Lavorare con un approccio sperimentale e basato sui dati: il fenomeno growth hacking
Raffaele Gaito, growth hacker e docente della 24Ore Business School, racconta un ramo del marketing divenuto famoso all’inizio dello scorso decennio in USA e oggi sempre più diffuso anche dalle nostre parti
Raffaele Gaito
Essere assolutamente certi del proprio livello culturale, delle conoscenze maturate su un settore e poi rimanere sorpresi di fronte ai cambiamenti sviluppatisi nel corso delle stagioni; un classico dei tempi attuali, in cui tutto muta, anche in maniera piuttosto repentina. D’un tratto, potremmo rimanere colpiti e affondati, ossia spaesati e privi di parole di fronte a terminologie misteriose: che cosa è il growth hacking? Da una veloce ricerca sul manuale universale del web, scopriamo un segmento del marketing incentrato sulla rapida crescita di un'azienda; un insieme di competenze trasversali (e non poco digitali). Gli obiettivi sono molteplici e parlano la lingua del miglioramento aziendale, del rapporto con il cliente, delle idee che funzionano e che possono essere ulteriormente migliorate. Un team di growth hacking è composto da marketer, sviluppatori, ingegneri e product manager che si concentrano specificamente sulla costruzione e sul coinvolgimento della base di utenti di un'azienda. Sulla data di nascita tutti sembrano concordare: 2010, grazie alla perspicacia di Sean Ellis, il quale insieme a Morgan Brown scrisse la prima testimonianza sul tema, “Growth Hacking Marketing”. Confusi? No problem, perché arriva in nostro soccorso Raffaele Gaito, growth hacker e docente della 24Ore Business School (protagonista della puntata di DailyOnAir - The Sound Of Adv presente su questo numero), che ha anche scritto dei libri sul tema.
Cos’è il Growth Hacking e come si è approcciato all’argomento?
«Ho iniziato a interessarmi dell'argomento intorno al 2013-2014. In America era letteralmente scoppiato qualche anno prima (nel 2010) ma in Italia ancora non se ne parlava. Tra un articolo e un altro mi imbatto nel libro “Growth Hacker Marketing” di Ryan Holiday ed è amore a prima vista. Ero un autodidatta del marketing con un passato da sviluppare, quindi sentire qualcuno che parlava di un marketing orientato al prodotto e basato sui dati per me era un sogno».
A fine 2022, tra le nuovi professioni ricercate dal mercato secondo l'inserto Scenari 2023 del Sole24ORE, figurava il growth hacker in area MKG e sviluppo.
Eppure già Forbes nel 2013 parlava di questa figura.
L’hype su questa figura non è ancora calato o questa figura ha saputo trasformarsi?
«Non è calato per nulla, anzi è solo aumentato. Ma non ne farei una questione di hype, bensì di competenze, di mindset. Lavorare con un approccio sperimentale e basato sui dati (il growth hacking alla fine è questo) è diventato necessario. In aziende di tutte le industrie e di tutte le dimensioni. Poi possiamo chiamarla come ci pare, le mode passano, ma l'importante è focalizzarsi sull'approccio sperimentale, quello fa la differenza».
Quali sono le doti necessarie per diventare un growth hacker?
«È un profilo per sua natura orizzontale, multidisciplinare direbbe qualcuno. Non è una persona che si specializza, ma che riesce a mettere insieme competenze che vanno dal coding all'analytics, dal marketing al prodotto e chi più ne ha più ne metta. È fondamentalmente una persona curiosa, che non smette mai di studiare, e che approccia il tutto con un taglio molto empirico. Le cose si testano, poi si osservano i dati, poi si prendono le decisioni».
Nel suo libro elenca le caratteristiche che deve possedere un growth hacker: imprenditorialità, leadership, curiosità … e ossessione per la crescita. Proprio su questo vorrei soffermarmi: il contesto sociale, dove le sensibilità stanno portando a rivedere il concetto di crescita, potrà porre fine a questa disciplina o al contrario potrà usare questa expertise in contesti sociali e sostenibili?
Se sì, potrebbe darci alcuni esempi dell’applicazione del growth hacking per fini sociali e sostenibili?
«Non mi sono mai occupato di questi temi e non ho esperienza diretta in questi settori. Però se facciamo un lavoro di astrazione e, come dicevo prima, ci concentriamo sul metodo, sull'approccio, allora direi proprio di sì. Sperimentare è qualcosa che si può (e si deve) fare in ogni contesto, anche quello sociale e sostenibile».
Nel suo profilo spiega il valore e l’importanza della multidisciplinarità, di un approccio olistico al business e nella sperimentazione come unica strada per l’innovazione, e sottolinea che sa trovare la giusta intersezione tra le mille passioni e competenze puoi avere una marcia in più degli altri. Ci spiega questo approccio?
«Nel mondo delle risorse umane chiamano queste persone dei "profili a T", proprio per differenziarle dagli specialisti, i cosiddetti "profili a I". Ovviamente non sto dicendo che gli specialisti non servano o siano superati. Quello su cui vorrei soffermarmi è che in un mercato che va alla velocità della luce, le figure orizzontali sono sempre più importanti. Il perché è presto detto: chi accumula esperienze e competenze molto diversificate sviluppa una capacità di adattamento unica; significa che rispondono meglio (e più velocemente) al cambiamento, che riescono a pensare fuori dagli schemi, che approcciano i problemi da un punto di vista diverso, cosa che è rara se non impossibile negli specialisti».
Dati sì, ma senza dimenticare il pensiero laterale: come si affina questo talento?
«La chiave è la curiosità, ossia la benzina che fa muovere questo motore chiamato pensiero laterale. Se non sei una persona curiosa è difficile che ti approcci alle cose in modo alternativo. E la curiosità la si allena ogni singolo giorno in tutte le azioni e scelte che facciamo: lo si fa leggendo libri fuori dal nostro ambito, andando a conferenze slegate dal nostro lavoro, incontrando persone che appartengono ad altre industrie, consumando contenuti che parlano d'altro, e così via all'infinito. La stimoliamo anche quando scegliamo che disco ascoltare, che film vedere e che strada fare per andare in ufficio».
Dal 26 luglio 2010, giorno in cui si attribuisce la nascita del growth hacking a oggi, com’è cambiato il metodo inventato da Ellis? Riusciamo a identificare i principali step che hanno trasformato il fenomeno?
«Beh… di cambiamenti ce ne sono stati tanti. Lo stesso Sean Ellis non usa più il termine "hacking", che ho abolito anche io da tempo dal mio vocabolario. Il focus è stato spostato sempre di più dal trucchetto / tattica "one shot" a dei processi stabili, duraturi e collaudati. Portare la sperimentazione in azienda significa questo: mettere in piedi un processo a tutti gli effetti. Con persone dedicate, con strumenti ad hoc, con l'utilizzo di modelli e framework di supporto, e così via».
Burn out: c’è un chiaro pudore nel parlare di un tema che può colpire chiunque. Negli ultimi tempi si parla di slow living e maggiore attenzione al benessere psichico dei lavoratori, quali sono le possibili strategie da mettere in campo?
«Per me questo è un tema fondamentale. E oggi ne parlo con serenità perché l'ho vissuto in prima persona, l'ho affrontato e l'ho superato. E in una società della performance come quella in cui viviamo oggi non è facile rivedere i propri tempi e le proprie modalità di lavoro. A volte ci si accorge di questa esigenza proprio quando è troppo tardi, quando si sta andando a sbattere. Per me la chiave è avere delle buone abitudini di supporto, senza quelle il cambiamento è impossibile».