Autore: Redazione
15/12/2017

Net neutrality, l’abrogazione di Trump per un internet a corsie preferenziali

Un colpo di spugna quello del presidente che potrebbe pesare soprattutto sulle aziende minori, ma i big tremano. Già annunciati i primi ricorsi

Net neutrality, l’abrogazione di Trump per un internet a corsie preferenziali

La legge sulla net neutrality è stata abrogata. Una svolta ultraliberista che muterà drasticamente l’attività online di milioni di americani.

Uguaglianza vade retro

Net neutrality significa uguaglianza nella fruizione dei contenuti e dei servizi veicolati attraverso la rete: tutti devono essere raggiungibili da ogni potenziale utente senza discriminazione alcuna, cosa che gli operatori sono tenuti a garantire senza aprire corsie preferenziali. Nel 2015 l’Open Internet Order aveva classificato i fornitori di banda (Internet Service Provider) come servizi per le telecomunicazioni, che il Titolo II del Communications Act del 1934 inserisce tra i common carriers, ossia i beni comuni come strade, oleodotti, rete elettricai e ospedali, che sono oggetto di regolamentazioni particolarmente restrittive.

Web completamente liberalizzato

Grazie a quella legge, che fu voluta da Barack Obama, l’ex presidente della Fcc, Tom Wheeler, era riuscito a sancire definitivamente il principio della neutralità della rete. Proprio la legge che Trump, Ajit Pai e le lobby dei provider hanno annullato. Sono state così trasferire le competenze sull’attività degli operatori dalla Fcc alla Federal Trade Commission (Ftc), authority per la concorrenza. È un disegno d’impronta commerciale, che punta alla completa liberalizzazione del web. Sancendo che si tratta di un mercato al pari degli altri, i cui attori devono poter operare senza restrizioni. Tutelare i consumatori, ma senza mettere bocca su come i provider gestiscano i loro affari.

La vendetta dei provider

La rivalsa dei fornitori di connessione internet si è alfine consumata. Le nuove leggi in materia di net neutrality gli permetteranno finalmente di presentare il conto ai giganti digitali. La net neutralità, dicono i fautori dell’abrogazione, è un principio che permette ad attori privati di arricchirsi utilizzando gratuitamente servizi forniti da altri grazie a imposizioni penalizzanti dello Stato. Di fatto, i vari Google, Facebook, Amazon, Twitter, Netflix e gli altri sono diventati in pochi anni tra le aziende più grandi e potenti del mondo. Ce l’hanno fatta offrendo contenuti, servizi e applicazioni attraverso il web. Ma cosa permette agli utenti di connettersi per farne uso? Guarda un po’, proprio i provider. Che, a fronte della nascita dell’opulenta economia digitale, non hanno ricevuto nemmeno un dollaro dai suoi protagonisti. In quest’ottica vanno lette l’acquisizione di Yahoo! da parte di Verizon e quella di Time Warner da parte di AT&T, che hanno trasformato gli operatori in vere e proprie holding delle telecomunicazioni (e su cui la Fcc non ha avuto nulla da ridire). Ma ora la musica sta per cambiare.

Se vuoi trasmettere a una certa velocità devi pagarla

Da ora i provider, oltre a guadagnare dagli abbonamenti dei consumatori, potranno lucrare sull’utilizzo delle loro infrastrutture da parte dei colossi 2.0 Per fare un esempio prestigioso, se Netflix vuole trasmettere video così velocemente deve pagare un pedaggio. Per fare offerte più vantaggiose ai consumatori, alcuni pacchetti di rete mostreranno, a fronte di un prezzo inferiore, soltanto alcuni servizi: i più utilizzati o, nella peggiore delle ipotesi, quelli che saranno disposti a spendere per esserci.

Negare la net neutrality

Il futuro prossimo mostrerà un cyberspazio fatto di corsie preferenziali che premiano alcuni e discriminano altri, siano essi aziende che non pagano i provider oppure utenti che possono permettersi soltanto abbonamenti economici. Il nodo è quello dell’accessibilità di contenuti e servizi, che non sarà più uguale per tutti ma sarà condizionata dalla velocità di trasmissione dei dati, da un lato, e dalla loro stessa disponibilità, dall’altro. Per fare un esempio, è come se uno dei tre operatori nazionali offrisse un pacchetto che, per soli 5 euro al mese, permette di visualizzare soltanto Repubblica, con cui ha siglato un accordo, e non tutti gli altri giornali online. Una testata che volesse emergere potrebbe non farcela mai, soltanto perché priva delle risorse per avere un’accessibilità simile a quella dei grandi.

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Più paghi più ottieni

A dominare l’internet di Trump, dunque, non è più la regola “gli stessi bit e gli stessi contenuti per tutti”, rivendicata dagli attivisti digitali, ma “più bit e più contenuti per chi paga di più”. C’è chi dice che a farne le spese non saranno tanto i grandi media e i big come Facebook e Amazon, ma le aziende minori. Il fatto che i provider mettano in vendita la velocità di trasmissione dei dati, inoltre, non sarebbe niente di nuovo: grandi siti come Netflix hanno già degli accordi di questo tipo in essere. Come dichiarò Trump prima della sua elezione, vigilanza dalla Fcc e le regole imposte sono state soltanto “un freno agli investimenti, all’innovazione e alla creazione di posti di lavoro”.

Maggiore competizione

C’è chi si dice convinto che la svolta liberista stimolerà la competizione e spingerà i provider a estendere la connessione e a offrire pacchetti più vantaggiosi. La priorità dei repubblicani è la copertura a banda larga di tutto il Paese. Repubblicani che hanno interrotto le indagini di stampo democratico sulla neutralità del servizio internet gratuito offerto dai due primi operatori wireless del Paese, Verizon e AT&T. Si intanto largo anche la proposta di rimuovere l’obbligo per i provider di richiedere il consenso degli utenti prima di utilizzare i loro dati personali e di navigazione a scopi pubblicitari.

Le reazioni dei big

Google, Facebook e tutti gli altri si sono schierati a favore della net neutrality: in un recente appello, firmato tra gli altri da Twitter, Tumblr, Airbnb, si sottolineava perfino come alla radice del successo del recente Black Friday ci fosse la bistrattata neutralità della rete. Le ragioni di questa levata di scudi sono svariate: dalla retorica open tipica della Silicon Valley alla necessità di prendere una posizione netta in un momento difficile per la loro reputazione a causa dell’impatto avuto sull’opinione pubblica dal caso delle fake news e dalle questioni di privacy degli utenti. Senza dimenticare, però, la minaccia concreta di dover sborsare un mucchio di soldi per stare al gioco dei provider. Che, come accennavamo, ormai sono operatori ma anche fornitori di contenuti di svariato genere: a questo punto, chi garantisce che non diano la precedenza ai propri, penalizzando di conseguenza quelli dei concorrenti?

Intanto in Europa…

Forse i provider riusciranno a presentare il conto a Zuckerberg & Co. Forse anche questi ultimi si butteranno nel mercato dei servizi internet (con i progetti Fiber e Internet.org, Google e Facebook sono già attivi in alcune aree degli Stati Uniti e del mondo). Come si comporterà l’Europa? Gli influssi da oltre oceano non tarderanno a farsi sentire: la compagnia telefonica portoghese Meo ha lanciato contratti per l’utilizzo di dati limitato ad app specifiche.