Autore: Redazione
13/11/2023

Marche al fronte: il brand activism si deve ora confrontare anche con la guerra

Le attività delle aziende e dei loro marchi non possono più focalizzarsi solo su D&I e Ambiente ma anche sui conflitti bellici: per questo serve un nuovo livello di consulenza da parte di agenzie creative, di PR e pianificazione

Marche al fronte: il brand activism  si deve ora confrontare anche con la guerra

Dopo quelli della D&I e dell’Ambiente, un nuovo “fronte” – è proprio il caso purtroppo di dirlo -si apre per le aziende, i brand e chi li aiuta a comunicare: si tratta di un aggiornamento del brand activism legato alla guerra. Al conflitto russo-ucraino si aggiunge ora quello tra Israele e Hamas ed è inevitabile per le marche chiedersi che fare, sia fisicamente che da un punto di vista dell’immagine. Da una prospettiva marketing driven si passa infatti sempre più a una society driven non legata più solo a temi già di per sé delicatissimi come quello dell’inclusione o dell’ambiente per citarne solo due ma, ora, inevitabilmente, a quelli bellici: rispetto ai quali, prendere posizione, esercitare una corporate diplomacy, è tutt’altro che facile. 

Corporate diplomacy

Se il conflitto russo-ucraino ci può preoccupare da un punto di vista geo-politico, quello che si è aperto sulle rive del Mediterraneo ci coinvolge ancor di più anche ideologicamente, e le aziende con le loro marche non possono sfuggire all’obbligo di prendere una posizione: c’è quasi, grazie soprattutto ai social, un’aspettativa che lo facciano, anche magari che non lo facciano per poterle eventualmente apprezzare o criticare. Insomma una guerra può essere divisiva in termini di giudizi anche per un brand nel giudizio dei “consumatori”, in questo caso abitanti del mondo con le loro legittime idee sulle quali però si aspettano di vedere che posizione assumono i brand. Li aspettano al varco, sempre per restare in argomento. E quindi, conseguentemente, diventano, per chi li produce, problemi di business. Qualche esempio: se il grande marchio non chiude la sua boutique nel centro di Mosca, c’è chi si sente autorizzato a pensare che agisca così perchè “sì, la Russia è da condannare perché invade l’Ucraina, ma agli oligarchi continuano a piacere le borse da migliaia di rubli”; non parliamo poi se lo facessero una popolare bevanda o un’altrettanto celebre catena di fast food: non la distribuisco più? Chiudo i ristoranti? Business a parte, sono prese di posizione che possono influire sui giudizi della gente quanto lo spostamento di una truppa o di una flotta sul territorio di guerra. 

Spaccatura

Anche in Italia come in altri Paesi d’Europa, si susseguono in questi giorni manifestazioni pro-Israele e pro-Palestina che si spera non degenerino in scontri fisici. Ma se appunto la citata marca di bevande, sempre per fare un esempio, pubblicasse un post o un’immagine a favore di Tel Aviv andrebbe incontro al rischio che una certa parte di popolazione e quindi di consumatori, quelli che vanno ai cortei per Hamas, la additino come l’ennesima presa di posizione della multinazionale americana. Ma se non lo facesse, il rischio sarebbe uguale: se non lo fa è perché è “asservita al potere”, anzi lo incarna, o perché appunto non prende posizione a favore della Palestina. Insomma qui non ce la si cava mettendo nello spot due ragazze che si danno un bacio o una di colore che veste anche lei un maglione. La corporate social responsability entra, è costretta a entrare, in nuovi territori, quelli degli occupanti o degli occupati. Nell’agenda che le aziende devono stilare per il purpose delle loro marche diventa essenziale la consulenza di agenzie creative, di relazioni pubbliche, persino di centri media, per valutare, per esempio banalmente, se l’annuncio di un capo di abbigliamento o di un orologio convenga o meno che stia in pagina assieme alle immagini di bambini decapitati o palazzi distrutti dalle bombe, idem per uno spot. Perché se è vero che le aziende non possono più permettersi di non schierarsi, il come farlo e da che parte è veramente difficile.