Google, dal 15 febbraio sarà attivo il filtro per l’adv su Chrome. Cosa cambierà?
I portali che propongono ads non conformi agli standard definiti dalla Coalition for Better Ads vedranno la loro pubblicità bloccata direttamente dal browser. Ma il 98,5% dei siti europei e nord americani, territorio d’azione del nuovo strumento, sono già adeguati
La verità è cambierà ben poco, quasi niente. Non ci sarà un millennium bug, un anno zero della pubblicità su internet, perché il 98,5% dei siti - dislocati tra Nord America ed Europa - soggetti al filtro del browser Chrome di Google sono già coordinati con le linee guida della Coalition for Better Ads, come già riportato da DailyNet.
L’annuncio di giugno
Facciamo un salto indietro. A giugno Google aveva annunciato l’introduzione di un filtro – spesso definito come “ad blocker” - all’interno di Chrome, che avrebbe escluso tutte le ads che non rispettassero le guidelines disposte dalla Coalition for Better Ads, una coalizione formata da strutture di enorme importanza per tutti comparti della pubblicità digitale (tra i quali IAB, Criteo, Facebook, Google, GroupM, Microsoft, Omnicom, Publicis Groupe, P&G, Teads, The Washington Post, ANA, 4A’s, Unilever, ...). Per capirci: questo gruppo di giganti appartenenti alle diverse aree del regno del marketing digitale si sono riuniti per chiedersi “cosa infastidisce i consumer? Qual è il limite di grandezza che è possibile utilizzare per una inserzione prima di infastidire gli utenti?”, e così via. il suo obiettivo principale è capire i consumatori e sviluppare gli standard utili a conciliare user e advertiser. Per farlo sono necessari i feedback degli utenti, e pertanto «si avvale di numerose ricerche e sondaggi, che ora ci hanno dato la possibilità di capire esattamente cosa gli dà fastidio», Scott Spencer, director of product management e Sustainable Ads di Google. Ai tempi, comunque, la notizia relativa a Chrome aveva creato un certo sconforto nel mondo digitale, ma forse non è del tutto giustificato.
Ad Experience Report
Insieme al filtro, Google aveva lanciato infatti lo strumento Ad Experience Report, che valuta la compliancy con le richieste della coalizione e indica come e cosa migliorare (attraverso un video di facile comprensione) per rientrare negli standard. Il responso può esprimere tre pareri: “Compliant”, “Warning” oppure “Failing”. Al primo e al secondo caso appartengono, rispettivamente, lo 0,5 e lo 0,9% dei siti europei e statunitensi. Chi appartiene alla categoria dei “Failing” avrà 30 giorni per rientrare negli standard e rimettersi a un nuovo giudizio da parte di Google. Oppure «tutte le ads del sito verranno filtrate», dichiara Scott Spencer. «Ci sono alcuni elementi che rendono difficile fare un blocco parziale, come l’ad density eccessiva e la latenza dei processi», spiega ancora. Il 37% dei siti che presentavano violazioni dopo il test sono già riusciti a correggere il tiro. «Il nostro obiettivo è arrivare al punto da non dover filtrare più nessuna inserzione da nessun sito, vogliamo trasformare tutti i portali in siti compliant». Insomma, Google punta a impedire le cattive esperienze su quel gruppo residuale di siti, perché sono questi a spingere gli utenti all’attivazione degli ad blocker - quelli veri – causando così un danno all’intero ecosistema dell’editoria.
Le 12 categorie “non accette”
Ad oggi ci sono 12 categorie di ads fastidiose - definite dagli utenti – suddivise per device (mobile e desktop). Su desktop saranno bloccati: pop up, prestitial con countdown, video in autoplay audio on, e sticky ads troppo larghe. Su mobile: pop up, prestitial, video in autoplay audio on, poststitial con countdown, ads di densità superiore al 30%, flashing animated ads, sticky ads troppo larghe e full screen scroll over. Le attività di blocco di Google non sono una novità. Già dal 2008 è attivo il blocco per i pop up, e da quell’anno in poi sono stati aggiunti diversi accorgimenti, tra cui la protezione contro le inserzioni fraudolente e la disattivazione dei video in autoplay in Flash. Il filtro è uno strumento in continuità, dunque, con ciò che è già stato fatto, e vuole essere un supporto per la industry in quanto toglierebbe agli utenti dei motivi per l’attivazione degli ad blocker (azione principalmente stimolata dall’invasività dell’advertising su alcuni siti).
Funding Choice: un tool dedicato agli editori
Un terzo strumento di Big G, che porta il nome di Funding Choice, punta proprio a salvaguardare le revenue dei publisher perse a causa dei tool di blocco pubblicitario. Funding Choice serve a proporre agli utenti che montano gli ad blocker dei messaggi «educativi», che spieghino il valore dell’advertising per il sito e li pongano davanti a una scelta: disabilitare l’ad blocker o pagare per il contenuto ad-free. «Gli utenti non capiscono il tacito contratto tra loro e gli editori: pubblicità per contenuti gratuiti. L’obiettivo dello strumento e spiegare loro l’importanza vitale dell’adv per i publisher e proporgli due modalità per contribuire a questo scambio», spiega Spencer.
Nessun pericolo
Nonostante le lettere aperte presentate lo scorso ottobre da IAB US, ANA, 4A’s e da BVDW e OWM, preoccupate per le difficoltà relative alla frammentazione degli standard sui diversi browser e per le peculiarità dei vari mercati unificati sotto un’unica lista di richieste, sembra che all’orizzonte non ci sia un’apocalisse. In ogni caso, non resta che adeguarsi.