Autore: Redazione
09/09/2025

La lezione di Amy Sherald: perchè rappresentare non basta più

La lezione di Amy Sherald:  perchè rappresentare non basta più

Giuseppe Mastromatteo

di Giuseppe Mastromatteo, President & Chief Creative Officer Ogilvy Italy, artista e Vice Presidente ADCI

Durante le vacanze estive a New York ho visitato la mostra “American Sublime” di Amy Sherald al Whitney Museum. Un’esperienza che mi ha fatto riflettere sul ruolo dell’arte nella costruzione dell’immaginario collettivo. Sherald, celebre negli Stati Uniti per i suoi ritratti dedicati agli afroamericani, ha costruito non solo un palcoscenico artistico, ma una vera cattedrale di significato. Il suo lavoro è un pugno gentile nello stomaco dell’iconografia occidentale e nasce da una biografia complessa: a 30 anni le fu diagnosticata un’insufficienza cardiaca e dopo otto anni difficilissimi arrivò il trapianto di cuore. Da vent’anni documenta l’esperienza afroamericana contemporanea, ribaltando la storia della ritrattistica e collocando il patrimonio afroamericano al centro dell’arte americana. Non a caso nel 2018 fu scelta da Michelle Obama per il suo ritratto ufficiale. La sua decisione di rappresentare la pelle dei soggetti in grisaglia (una scala di grigi) è di straordinaria potenza concettuale. Non è assenza di colore, ma affermazione: spogliando la pelle della sua tonalità, l’artista ci costringe a guardare oltre la superficie, a incontrare identità e umanità: ci obbliga a vedere la persona prima dell’etnia. In Italia non abbiamo conosciuto un movimento paragonabile a “Black Lives Matter”, ma la nostra società è tutt’altro che monolitica.

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La lezione di Amy Sherald è chiara: la rappresentazione non è atto passivo ma è gesto creativo e politico. Re-immaginare un bacio iconico con due marinai neri o la Statua della Libertà con i tratti di una donna trans non significa cancellare la storia, ma ampliarla, renderla più onesta, più vicina a un mondo che fatica ancora a trasformare tematiche straordinarie e urgenti in ordinarie. L’arte crea un continuum con se stessa: prende le icone del passato, le piega e le rilancia, le rende aderenti a un mondo che è cambiato e ci pone il quesito in piedi in un museo. In questo passaggio sta la forza di Sherald: non interrompe la storia, la continua; non strappa le immagini, ma le rielabora, facendole parlare di nuovo. E se il Whitney Museum di New York dedica oggi un intero piano a queste opere, significa che c’è ancora molto da fare, ovunque.

Amy Sherald usa l’arte per disegnare un futuro possibile. Ci ricorda che l’arte non deve essere solo specchio, ma anche matita: strumento per tracciare una realtà diversa. Rappresentare è fotografare ciò che c’è, ricostruire è disegnare ciò che manca. La rappresentazione registra l’esistente, come uno specchio che riflette, la ricostruzione allarga il campo del possibile e per farlo non basta una fotografia: serve una matita.

Rappresentare è utile e necessario, ma rischia di restare cosmetico, soprattutto nel mondo della comunicazione. Ricostruire è necessario, perché aggiunge senso e responsabilità. La comunicazione ha oggi una grande responsabilità: mostrare la diversità come la risorsa inestimabile che è, non come una parentesi che troppo spesso è solo decorativa. Qui si gioca oggi la rilevanza culturale di un’agenzia: nella capacità di non fermarsi al riflesso, troppo spesso punto di partenza di qualsiasi brief con target precisi e fotografie del mondo ideale ma che tradiscono una fittissima complessità. Un’agenzia di pubblicità non dovrebbe limitarsi a mostrare il mondo per come è ma avere il coraggio di ricostruirlo. E forse un modo da dove partire c’è, oggi che parliamo spessissimo di intelligenza artificiale come superpotere dell’immaginazione. Quale momento migliore per provare a disegnare un nuovo paesaggio? Possiamo chiamarlo nuovo immaginario collettivo.