Autore: Davide Sechi
01/12/2025

Adnkronos: “L’Europa rischia di frenare l’AI mentre Stati Uniti e Cina corrono”

Il dibattito europeo sul Digital Omnibus, il ruolo delle big tech, la sfida dell’AI Act, la posizione dell’Italia tra ritardi digitali e progetti innovativi: un’analisi a tutto campo da parte dell’agenzia di stampa su opportunità e vulnerabilità nell’adozione dell’intelligenza artificiale. Le parole del vicedirettore Giorgio Rutelli

Adnkronos: “L’Europa rischia di frenare l’AI mentre Stati Uniti e Cina corrono”

Giorgio Rutelli

L’intelligenza artificiale continua a trasformare il modo in cui istituzioni e imprese progettano servizi, prendono decisioni e competono in uno scenario globale sempre più complesso. Una riflessione approfondita è arrivata anche dall’evento “Intelligenza Umana, Supporto Artificiale”, organizzato giovedì scorso da Adnkronos al Palazzo dell’Informazione a Roma, dove governo, aziende e mondo accademico hanno discusso opportunità e rischi delle nuove tecnologie. Il confronto ha acceso i riflettori su governance, sicurezza digitale e impatto dell’AI sul lavoro e sulla competitività del Paese. In un momento in cui l’Europa definisce le nuove regole attraverso l’AI Act, l’Italia è chiamata a capire se stia davvero cogliendo il potenziale dell’innovazione. Adnkronos, per l’occasione, ha rivelato anche i risultati di una recente indagine svolta su un campione di 3.000 persone e incentrata su “la percezione e sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale in Italia da parte di istituzioni, imprese e cittadini” Ne parliamo con il vicedirettore di Adnkronos, Giorgio Rutelli (ospite di DailyOnAir - The Sound Of Adv).

Nella vostra ricerca emerge come l’Italia stia integrando l’intelligenza artificiale nei processi pubblici e nelle politiche industriali per aumentare la competitività. Quali sono oggi le principali sfide?

«Durante il nostro evento abbiamo presentato una rilevazione realizzata con i lettori sul sito, sui social e sulla nostra rete, dedicata all’adozione dell’intelligenza artificiale da parte degli italiani. Non ha valore statistico, ma è stata molto partecipata e si è rivelata un ottimo punto di partenza per un confronto tra istituzioni italiane ed europee, big tech come OpenAI, Meta e Google, e aziende che stanno iniziando a introdurre l’AI nei loro processi. Il vero nodo è che l’Europa si trova a un bivio. Pochi giorni fa la Commissione ha presentato il Digital Omnibus, che punta a razionalizzare e talvolta a sospendere parti della regolamentazione digitale europea. Da anni si discute del rischio che l’UE abbia regolato troppo presto e troppo rigidamente, imbrigliando l’innovazione. Non tutti la pensano così: molte aziende chiedono meno vincoli, mentre una parte della società civile sta chiedendo con forza di non mettere in pausa l’AI Act e di non toccare il GDPR. Il dibattito è apertissimo. Nel frattempo, Stati Uniti e Cina corrono verso un’adozione massiccia dell’AI a tutti i livelli. E la domanda che resta sul tavolo è: quanto possiamo ancora interrogarci prima di perdere definitivamente terreno?»

L’Italia procede con cautela, ma non siamo i soli. È un freno necessario o un limite?

«L’Italia sconta un ritardo storico sia nell’adozione delle tecnologie sia nella digitalizzazione complessiva. Eppure ci sono realtà che rappresentano modelli anche per altri Paesi. Durante il nostro convegno, ad esempio, Mario Nobile, direttore generale dell’AgID, ha spiegato come piattaforme come IO o PagoPA siano considerate best practice fuori dall’Italia. In alcuni casi siamo stati precursori nel rapporto digitale tra Stato e cittadino. Ho parlato anche con Alessio Butti, sottosegretario alla transizione digitale e mi ha confermato che una delle priorità dei prossimi mesi sarà la costruzione dello “Stato agentico”, cioè un’amministrazione che non metta ostacoli ma aiuti attivamente i cittadini ad accedere a informazioni, documenti e piattaforme, semplificando davvero la vita quotidiana. Certo, ci sono aree in cui siamo indietro. Ma ci sono anche segnali molto positivi: il fascicolo sanitario elettronico, il wallet personale dell’identità, la possibilità di interagire con istituzioni, banche e aziende a livello europeo. Sono tasselli decisivi per la competitività futura».

In Italia sono nate due agenzie governative dedicate all’AI. Che ruolo hanno oggi, e come si posizionano rispetto alle aziende?

«Rispetto a pochi anni fa, nelle istituzioni c’è una consapevolezza molto più diffusa dell’importanza dell’intelligenza artificiale. Ministeri, dipartimenti e funzionari stanno maturando una visione più concreta. Il problema, tuttavia, è duplice. Da una parte dipendiamo quasi totalmente da tecnologie americane. Ed è una vulnerabilità: se parliamo di sovranità digitale e di controllo dei dati, questo crea limiti evidenti. Dall’altra parte c’è un problema economico: lo Stato italiano, pur apprezzato all’estero per la sua prudenza fiscale, ha pochissime risorse per investimenti massicci in AI, incentivi, infrastrutture. Negli Stati Uniti avviene il contrario: enormi capitali privati alimentano le big tech, e addirittura l’Europa investe in America, si parla di 300 miliardi solo quest’anno destinati all’AI USA. A questo si aggiunge un governo americano, oggi molto interventista, che convoca Oracle, Google, Meta e altri attorno a tavoli comuni per accelerare progetti strategici. È un approccio molto diverso dal nostro. In Italia, invece, le due principali realtà istituzionali, il Dipartimento per la trasformazione digitale e il MIMIT, operano su due fronti differenti: uno verso la PA e i cittadini, l’altro verso il mondo produttivo. Hanno programmi utili, ma le aziende chiedono soprattutto meno complessità normativa e una maggiore uniformità di regole a livello europeo».

E qui torniamo al Digital Omnibus. Quali rischi vede nel percorso europeo?

«Il testo è stato presentato dalla Commissione e ora passerà al Parlamento e poi al Consiglio. Il rischio è che si arrivi al 2026, quando l’AI Act prevede ulteriori scadenze importanti, senza un Omnibus definitivamente approvato. È il limite della nostra struttura: tre istituzioni, ventisette Paesi, visioni diverse, tempi lunghi. Nel frattempo, gli altri corrono».

Passando alle imprese italiane: cosa devono fare, e cosa stanno facendo, per posizionarsi davvero sull’AI?

«Dobbiamo distinguere. Le grandi imprese italiane sono poche ma solide: hanno risorse, competenze, reti internazionali. Non mi preoccupano. Il vero tema è il tessuto delle piccole e medie imprese, che è la nostra forza ma anche la nostra fragilità. Solo il 20-25% delle PMI ha un livello di digitalizzazione adeguato. È pochissimo. Eppure proprio questo segmento potrebbe ottenere i benefici maggiori: l’AI consente salti di produttività enormi anche con investimenti contenuti. Però serve un sostegno coordinato: incentivi pubblici, ma anche un ruolo attivo delle grandi aziende capofiliera, che possono trainare quelle più piccole, come è avvenuto con la sostenibilità. Dieci anni fa erano le capofiliera a imporre ai fornitori standard ambientali più alti per allineare tutta la catena. Lo stesso può e deve avvenire con l’intelligenza artificiale».

Durante il vostro evento si parlava di “urgenza”. Perché questa parola è così centrale?

«Perché la velocità è cambiata. Gli Stati Uniti hanno investito centinaia di miliardi in modelli, infrastrutture e capacità computazionale. Noi possiamo sfruttare parte di ciò senza dover sostenere quei costi, ma il tempo non gioca a nostro favore. C’è una percezione in Italia, anche nel sondaggio che abbiamo proposto, che l’AI sia sì importante, ma che ci sia ancora molto tempo per pensarci. Non è così. La velocità di adozione è aumentata drasticamente. Non trasmettere un senso di urgenza significa rischiare di restare irrimediabilmente indietro».

C’è poi il tema del lavoro, che preoccupa molti cittadini. Cosa succederà nei prossimi cinque anni?

«La paura principale degli italiani è la perdita del posto di lavoro, soprattutto a causa dell’automazione dei processi. Ed è una preoccupazione fondata: negli Stati Uniti alcune professioni all’inizio della carriera, giovani analisti, junior accountant, giovani avvocati appena laureati, stanno già scomparendo. Alcune mansioni vengono automatizzate integralmente. Allo stesso tempo, però, c’è un elemento positivo: sia negli Stati Uniti che in Italia esiste un forte mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Ci sono più posizioni aperte che candidati. E nel nostro Paese pesa anche il tema demografico. In un certo senso, l’automazione può compensare la diminuzione della forza lavoro. Ma il problema è un altro: i lavori iniziali della carriera servono per imparare quelli successivi. Sostituirli significa indebolire la formazione professionale. È lo stesso meccanismo che abbiamo visto con lo smart working: doveva essere la nuova normalità, poi molte aziende sono tornate in ufficio perché mancavano onboarding, relazioni, spirito di squadra. Il rischio è che l’automazione abbia un picco iniziale e poi debba trovare un nuovo equilibrio. Il fattore umano resta centrale».

In sintesi: che cosa serve, subito, per non restare indietro?

«Serve una visione collettiva. Investimenti, incentivi, una regolamentazione che non soffochi l’innovazione, una cultura digitale più solida, maggiore collaborazione tra imprese, istituzioni e cittadini. Gli Stati Uniti stanno correndo. La Cina sta correndo. L’Europa deve decidere rapidamente se vuole competere o restare un mercato che importa tecnologie altrui. E noi italiani dobbiamo smettere di dirci “siamo bravissimi” e riconoscere che ci sono fragilità da affrontare. Solo così possiamo trasformare questa rivoluzione in un’opportunità reale».