Daniele Cobianchi, CEO di McCann WG: «Puntare sugli influencer è una scorciatoia rischiosa se non fanno parte di una strategia»
Sollecitato da la Repubblica dopo il caso Ferragni, il manager spiega come i creator, star del web, non aiutano le aziende a costruire un reale valore
Daniele Cobianchi, CEO di McCann WorldGroup Italia
Daniele Cobianchi, CEO di McCann WorldGroup Italia, è stato intervistato da la Repubblica sul caso Ferragni-Balocco e sull’influencer marketing. Ecco l’intervista. Cavalcano gli algoritmi dei social media per essere sempre ben visibili. Sono i beniamini della stampa per la loro capacità di suscitare, intenzionalmente o meno, vespai di cui si parla per giorni e giorni - il caso Ferragni-Balocco è solo l’ultimo di una nutrita serie. Gli influencer sono gli architravi su cui si regge gran parte dell’economia digitale, e l’AgCom ha appena deciso regole più severe per quelli che superano il milione di follower. Ma quanto valore portano davvero ai loro sponsor? È presto per dire che il re è nudo, ma sulla reale efficacia degli influencer oggi sorge più di un dubbio. E ci sono esperti come Cobianchi, che criticano chi pensa di costruire valore per la propria azienda consegnandosi agli influencer più in voga.
Il caso Ferragni-Balocco è stato un incidente di percorso sporadico o contare troppo sugli influencer è sbagliato?
«Nel momento in cui un’azienda affida la sua comunicazione a un influencer, soprattutto se si tratta di una indiscussa celebrity come Chiara Ferragni, di fatto non lo sta inserendo all’interno di una strategia che ha deciso e costruito l’impresa. L’influencer, dovrebbe essere soltanto un canale di una strategia che ti sei costruito in precedenza. Invece molto spesso le aziende si rivolgono agli influencer come per dire: “Guarda, io non so cosa dire di questo prodotto: me lo vendi?”. L’influencer da parte sua ci mette la notorietà, d’accordo ma, soprattutto se è importante, presenta il prodotto ai suoi follower scegliendo il modo di presentarlo, in quanto è la persona che conosce di più la propria audience e ha come interesse primario preservarla. E questa, per l’azienda, è una perdita di controllo. Una rinuncia ad avere un pensiero strategico, ad esprimere un punto di vista».
Però per le aziende raggiungere i milioni di follower dei grandi influencer è comunque allettante...
«In buona sostanza è come se tu affittassi una villa lussuosa a Saint Moritz per un weekend, e invitassi degli amici per una grande festa, dove farai delle foto molto belle che faranno invidia a tutti sui social. Ma quella villa meravigliosa non è tua: finito il weekend, tornerai a casa tua e, al di là delle foto, non ti rimarrà nulla. Quello che fanno molte aziende rivolgendosi agli influencer è semplicemente “affittare” la loro audience».
Comunque queste iniziative generano grossa eco, e i casi in cui si verificano degli incidenti non sono frequentissimi, anche se quando capitano fanno scalpore.
«A indirizzare le aziende verso questo tipo di partnership con i super influencer sono soprattutto considerazioni tattiche, e non strategiche. Bisogna pensare che, come dicono diverse ricerche, oggi mediamente un direttore marketing o direttore commerciale, dura meno di 18 mesi. Questo significa che tu arrivi in un’azienda e hai pochissimo tempo per raggiungere degli obiettivi. E allora che farai? Ricorrerai a degli escamotage che ti portano risultati nel breve termine, ma non ti aiutano a costruire realmente valore per il tuo brand».
In certi casi poi le partnership con l’influencer vengono annullate per paura che facciano addirittura perdere valore. Coca-Cola, dopo il caso Balocco, ha fermato lo spot con Chiara Ferragni e anche altre aziende stanno meditando mosse analoghe.
«Una reazione forse eccessiva. Se decidi di accantonare la brand equity, ossia la costruzione di valore solido e duraturo per la tua azienda, per ottenere risultati tattici sul breve, poi non dovresti spaventarti e ritirare impulsivamente la partnership perché sta diventando scomoda. Se anche oggi, dopo tutto quello che è successo, uscisse lo spot della Ferragni per Coca-Cola, questo non porterebbe comunque danni alle vendite o alla marca per un’azienda storica, che ha oltre un secolo di costruzione di valore alle sue spalle. Magari nel breve periodo si criticherebbe la scelta dello spot, ma comunque l’azienda avrebbe sempre la valida giustificazione di non essere stata al corrente del caso Balocco al momento della scelta della Ferragni. Il problema è che così come, affidandosi a influencer “ingombranti”, le aziende cercano una scorciatoia veloce per avere risultati a breve termine, quando le cose vanno male le aziende reagiscono in modo altrettanto impulsivo cercando di dissociarsi in modo molto visibile».
È proprio il rapporto con i grandi influencer, che quindi hanno grossa eco sia nel bene che nel male, che porta i manager a diventare così impulsivi?
«Così come è sbagliato aspettarsi che consegnarsi agli influencer possa costruire reale valore per l’azienda, è anche sbagliato, a mio avviso, immaginare che una disavventura con l’influencer di turno distrugga valore: non ti distrugge valore perché, semplicemente, non stavi creando valore ma - se non avevi inquadrato l’influencer dentro una strategia più ampia, decisa da te, e che mostra come il tuo brand interpreta le sfide e i temi che stanno a cuore all’opinione pubblica - stavi soltanto affittando per poco tempo una grande audience rinunciando alla tua voce».