Comunicare il cambiamento climatico, tra politica, informazione e web3.0
Dall’emergenza alla presa di coscienza, tra ideologie, partigianerie, narrazione positiva e creazione di un immaginario collettivo. Intervista al Climate Political Advisor Sebastiano Michelotti
Sebastiano Michelotti
Clima impazzito: la sintesi mediatica del chiacchierato, studiato, analizzato, famigerato Cambiamento Climatico, tra concretezza, obiettivi, sogni e greenwashing. Ma come si comunica oggi quello che si è tramutato (anche) in un settore di mercato? Lo abbiamo chiesto a Sebastiano Michelotti, Climate Political Advisor (ospite di DailyOnAir - The Sound Of Adv). Co-creatore di Friday’s For Future Italia, per cui cura la comunicazione e successivamente il coordinamento delle aree di lavoro, Michelotti diventa poi ufficio stampa, seppur per un breve periodo, della stessa Greta Thumberg. Gli studi universitari in Scienze Politiche, relazioni internazionali e diritti umani all’Università di Padova gli permettono di fare pratica di ricerca con un tirocinio all’interno di ECCO, un think thank che nasce per inserire il cambiamento climatico in un’ottica propositiva, come traino per una società più resiliente con soluzioni trasformative mirate a una crescita a basso impatto sull’ambiente. Attualmente ricopre il ruolo di Climate Political Advisor per la Consigliera regionale del Veneto Cristina Guarda, occupandosi della strategia politica con particolare attenzione rivolta al clima. Continua a seguire in modo trasversale il movimento FFF. Il suo obiettivo è di affinare la capacità strategica in politiche climatiche, da spendere su più fronti, asservendo allo scopo anche la laurea in scienze politiche che sta per conseguire.
Come si comunica il cambiamento climatico in chiave politica, all’interno di una società che appare sempre più esasperata e incline alle proprie partigianerie?
«Affrontare tematiche in maniera politicizzata e sempre più polarizzata sembra quasi farci tornare indietro nel tempo, a un Italia carica di ideologie. Ma gli anni 70 sono lontani, il mondo è cambiato e la comunicazione è molto differente. Bisognerebbe informare ma mai eccedere, ed essere sempre realistici; non c’è una vera e propria ricetta, sono tutte strategie possibili. La narrativa sull’ambiente è ovviamente mutata. Nel 2019 qualcosa è cambiato profondamente, si è passati dal parlare di riscaldamento globale a cambiamento climatico; in più, la problematica è diventata sistemica: a essa si collegano varie altre crisi, per arrivare a un collasso del sistema vero e proprio».
Qualcuno ha parlato di semplificazione del messaggio…
«Non occorre spiegare l’utilità dell’auto elettrica, è meglio mostrare un centro urbano ben organizzato senza veicoli, in cui il sistema del trasporto pubblico funziona; una fotografia virata in positivo, ossia smettere di emettere Co2 mettendo in fila non i problemi ma i vantaggi. Serve un cambiamento di paradigma per raccontare come viviamo, che scardina certezze, norme sociali, valori, comodità mentali».
Chi può fare un passo decisivo?
«Chi apre il vaso di Pandora deve poi gestirne la confusione. Le destre hanno terreno fertile, la sinistra sembra quasi impossibilitata a rispondere, la transizione viene bloccata. Occorre visualizzare il problema, essere capaci di raccontarlo, creare un immaginario collettivo del cambiamento, ma abbiamo bisogno del capitale sociale, di comunità aggregate cui relazionarsi, serve un discorso pratico, sociale e politico».
Comunicazione globale o più radicale?
«Dipende dagli obiettivi, senza contare che quando si sceglie la seconda opzione si deve tentare sempre la strada positiva, ma c’è il rischio di non incidere. Inoltre, si nota sempre di più il ricorso al termine “emergenza” che però rappresenterà la normalità, che ci porterà a organizzare meglio la comunicazione, con precise pianificazioni da parte dei singoli governi. Ma il mercato non può avere una visione lungimirante, le aziende lavorano su bienni-trienni, devono massimizzare, quindi sono impossibilitate a trovare una risoluzione che possa avere ripercussioni a lungo termine e l’informazione va di pari passo: i cronisti che si occupano di ambiente non sono quasi mai assunti, il che significa che manca un vero e proprio programma».
Si potrebbe calcare la mano, con previsioni non ottimistiche?
«Se a una multinazionale si prospetta la sparizione di molti suoi asset da qui a dieci anni, paradossalmente non cambia nulla, perché i CEO operano su programmi triennali, non vanno oltre. E poi, la narrazione del disastro ecologico a lungo andare crea panico, l’individuo non riesce a controllarlo, serve quindi un’evoluzione, altrimenti si crea stagnazione e rifiuto».
Quanto può aiutare il mondo del web3.0?
«Di AI si parla ovunque ma non c’è ancora una vera e propria consapevolezza. È indubbio che il dato e la sua raccolta effettuata con sempre maggiore precisione aiuteranno non poco per arrivare a una forma di comunicazione personalizzata e quindi più efficace».