Autore: Redazione
06/04/2023

We Are Social racconta la nuova fruizione dell’evento sportivo, diversificato, personalizzato, qualitativo

La unit dedicata dell’agenzia spiega come siano mutati i modelli di consumo, le opportunità, le sfide, alla ricerca di forme comunicative sempre più interessanti e performanti. Parola al Director Sport, We Are Social Mirco Bertola

We Are Social racconta la nuova fruizione dell’evento sportivo, diversificato, personalizzato, qualitativo

Mirco Bertola, Director Sport di We Are Social

Non ce ne siamo neanche accorti: nel breve volgere di due lustri siamo diventati protagonisti di una bar sport globale, che non ha più bisogno di una bancone, di un caffè, di una stretta di mano, di una birra, delle pagine rosa del quotidiano preferito. “Eh signora mia, quanto stavamo meglio prima… “, il classico e vetusto coro che parte, seppellito però da quello delle nuove curve. Insomma, come viviamo l’intrattenimento sportivo nel 2023? Nel tempo, ovviamente, si è evoluta la fruizione degli eventi e continua a mutare. Per quel che concerne il ruolo dei brand e della comunicazione a essi legata l’obiettivo continua a spostarsi, ad aggiornarsi e sotto la lente di ingrandimento c’è sempre la famigerata Generazione Z… In attesa che si faccia definitivamente notare anche quella Alpha. Lo schermo privilegiato, manco a dirlo è divenuto quello dei social. Prima che possiate perdervi nei soliti mugugni che denotano soprattutto anzianità, non solo biologica, sappiate che le possibilità di comunicare, con risvolti sia umani sia monetari sono aumentate, grazie a una diversificazione della proposta che sembra non conoscere confini. Ma noi qualche limite vogliamo porcelo, per provare a capire meglio lo stato attuale. Accorre in nostro aiuto We Are Social che, a inizio 2021, ha lanciato la propria unit dedicata al marketing sportivo, We Are Social Sport, e nel frattempo ha iniziato a collaborare con brand prestigiosi a dir poco: adidas, Juventus e Ferrari, tra gli altri. L’agenzia lavora a una serie di ricerche atte ad analizzare quello che succede nel mondo della comunicazione e Think Forward è una di queste; quest’anno è stata rilasciata un’edizione dedicata proprio al mondo sport. Ci facciamo raccontare tutto da Mirco Bertola, Director Sport di We Are Social (protagonista di DailyOnAir - The Sound Of Adv)

Parliamo di sport ma soprattutto di persone che seguono lo sport. Come si è evoluta e come si sta evolvendo la fruizione degli eventi sportivi? Come si relazionano le nuove generazioni all’industria sportiva, cosa si aspettano e come catturare la loro attenzione?

«Si tratta di un’evoluzione costante. Oggi assistiamo all’egemonia della qualità rispetto al fattore tempo, nel senso che prima attendevano bramosi il momento di gustarci lo spettacolo, vincolato da determinati orari e da pochi schermi; siamo passati dall’attesa spasmodica delle immagini offerte da 90esimo Minuto a una democratizzazione totale della fruizione; la nostra conquista era rappresentata da un contenitore di goal, da pochi commenti, mentre oggi siamo letteralmente sommersi dai contenuti ed è così che la qualità della proposta è divenuta preponderante, sempre più legata all’approfondimento, all’interpretazione. E gli esempi concreti non mancano: prendiamo la telecronaca odierna, in cui gli speaker sono diventati degli autentici aneddotisti che offrono un enorme valore aggiunto su tematiche non sempre e non solo legate al campo di gioco. Di fatto, non esiste più un evento che non abbia la possibilità di allargarsi a una chat che si muove in contemporanea e che commenta ogni dettaglio. Tutto questo è ormai connaturato alla nostra quotidianità; un fenomeno mutuato da altri mondi, come il Festival di Sanremo, per fare un esempio facile. Ecco perché una piattaforma come Netflix investe sui retroscena sportivi. C’è un format recente che sta riscuotendo un grande successo, “The Shop”, che vede protagonista LeBron James, ambientato nella bottega di un barbiere in cui la superstar del basket parla del più e del meno, non di azioni di gioco, bensì di fatti che non puoi trovare in altre situazioni. Il tutto rende l’esperienza più umana, oltre a mettere l’accento in maniera prepotente sulla qualità e l’originalità della proposta».

Qualcuno, e non sono pochi, potrebbe obiettare, e spesso lo fa, quanto stesse meglio prima…

«Si tratta di un freno mentale causato dall’avere a disposizione una scelta molto ampia di contenuti che non sono facilmente gestibili. Il paradosso è che prima non avevamo opzioni, c’era solo 90esimo Minuto. E allora diciamolo: oggi le cose sono più interessanti anche se più complicate. Si è trasformato il modo di vivere il cosiddetto bar sport, si sono create forme di aggregazione prima sconosciute, il che ha cambiato anche la costruzione delle singole identità, del vivere il prossimo, le relazioni. Prima si faceva tutto solo in real life oggi non ci sono vincoli spazio-temporali. Personalmente, preferisco godere delle possibilità di commentare odierne, e mi piace vedere la partita insieme ad altre persone, che non sono necessariamente con me nello stesso luogo. Per convincere gli scettici basterebbe far presente loro che oggi la narrazione è più democratica, che le persone hanno voglia di personalizzare i pezzi di questa narrazione. Sono nati format che si muovono in questi termini, che parlano la lingua del collezionismo, attraverso gli NFT, per esempio, custodi di memorabilia, di ricordi. Un modo nuovo di vivere lo sport, una sorta di aggiornamento dell’epoca delle figurine. Si pensi anche al Fantacalcio. È cambiata la fruizione, che non vuol dire possedere tutto, significa poter scegliere fra una miriade di opzioni».

Si è spesso parlato negli ultimi annidella progressiva mancanza di attenzione all’evento da parte dei giovani...

«In realtà, è come se ci trovassimo immersi in una vastità di espedienti narrativi: una storia inizia dall’evento sportivo in sé, dopo cinque minuti lo stesso viene trasportato sui social, passa su WhatsApp. Quella che manca è la storica linearità. Le persone sono alla ricerca di una spiegazione, vogliono sapere cosa ci sia dietro un’esultanza, cosa nasconda un singolo gesto. Tutto appare molto più frammentato, ma non accade solo nello sport, succede ovunque, per ogni cosa».

We Are Social si occupa di marketing sportivo ormai da diversi anni e due stagioni orsono l’expertise dell’agenzia si è trasformata in una unit dedicata, We Are Social Sport. Qual è l’approccio che utilizzate per venire incontro alle esigenze delle persone oggi e come nascono i vostri lavori?

«Lavoriamo con la stessa filosofia del social thinking, un modello strategico incentrato sulla comprensione delle community. Quanto tempo lasciamo passare prima di prendere il cellulare quando la cerchia di persone con le quali stiamo interagendo perde di interesse? Poco. Con la comunicazione di brand ancora meno. In sintesi: non si può fingere di essere ascoltati solo perché si sta parlando, occorre essere rilevanti per chi ci circonda. È un circolo virtuoso e allo stesso tempo vizioso e io propendo per il primo, perché ci spinge ad avere comunicazioni più interessanti, per far sì che le piattaforme social rimangano sempre stuzzicanti; questa è la filosofia che muove la nostra unit».

Cosa funziona oggi, quali trend avete osservato?

«Si tratta di tendenze legate al contenuto. Assistiamo alla frammentazione delle narrative che non seguono più una linearità regolare, con storie che iniziano e finiscono allo stesso mondo e sullo stesso mezzo; oggi, tutto può ingigantirsi o ridursi, c’è maggiore imprevedibilità. Occorre dare maggiore importanza all’approfondimento e alla personalizzazione, che rappresenta un vero e proprio valore aggiunto. Si potrebbe parlare di un’eccesiva democratizzazione dell’informazione, ma se qualcuno ha qualcosa di bello da dire oggi lo può fare, se non trovo qualcuno che lo faccia, allora posso provarci io».

Una volta la passione per lo sport derivava soprattutto dalla famiglia mentre oggi i canali social, così come in altri ambiti, sono diventati un secondo schermo in grado di aprire nuovi spazi di partecipazione. Cosa significa questo nuovo contesto per il settore della comunicazione e per i brand?

«I marchi devono accreditarsi, instaurare un dialogo di valore, non parlarsi addosso. Possiamo dare tre consigli: farsi ispirare dalla creatività dei fan, ce ne sono tanti che hanno molto da dire e che possono suggerire inedite modalità di interazione; il tutto deve essere accompagnato da una buona dose di coraggio nell’abbracciare la cultura dello sport vissuto dalla community; in secondo luogo, si deve capire che cosa funzioni e come venga vissuto dalla community, cosa che permette di rimanere al passo con i tempi; infine, ci si deve avvicinare al centro dell’azione, non solo sul campo, ma a quello che dicono le persone, catturare la particolarità, le nicchie. Per esempio: alcuni dati ci raccontano di una nuova wave di esponenti sportivi che stanno avendo un grande successo, anche se magari non sono dei top player, delle star. La Generazione Z si lascia conquistare da atleti che rispecchiano i suoi valori»

Quando parliamo di piattaforme social non intendiamo solo i canali più comunemente conosciuti, ma anche nuove realtà come il Metaverso e piattaforme come Discord e Twitch. Come stanno influenzando questi mondi lo sport marketing?

«Parliamo di Discord, uno spazio poco esplorato dai brand, in cui la comunicazione si sta formando, sta maturando. Di contro, TikTok già oggi appare meno strano rispetto a qualche tempo fa, come se fosse un locale in cui si suona, prima appannaggio di pochi, ma in cui entra sempre più gente e allora l’artista cercherà sempre di più di accontentare tutti e sarà sempre meno verticale. Su Discord suona solo una certa musica, è un luogo molto meno contaminato, quindi può trasformarsi in una grande opportunità ma, come sempre, occorre essere coraggiosi. L’industria cerca i grandi numeri, ma non sempre la quantità fa la differenza, dipende dagli obiettivi. Un esempio, in questo senso: la nostra partnership con Ferrari che ha portato all’attività “Keep on Dreaming”, caratterizzata dalla scoperta di antichi faldoni conservati negli archivi dell’azienda e contenenti delle lettere che i bambini negli anni 80 scrivevano all’ingegner Enzo, il quale rispondeva a tutti. Ne abbiamo contattato tre di questi ex piccoli tifosi e ci siamo fatti raccontare le emozioni del tempo. E allora, crediamo che i brand debbano inventarsi delle storie, o magari scovarle negli archivi. È una sfida perché spesso il freno del conservatorismo è sempre presente, come il rischio di parlarsi addosso».

Quanta propensione avete incontrato nei marchi nel lasciarsi andare?

«Ci sono dei freni ed è anche giusto, dopotutto la nostra non è un’attività umanistica, si punta a essere efficaci e il modo migliore per esserlo sui media odierni, soprattutto sui social, che sono strumenti, è cercare il punto di contatto tra quello che ci interessa e quello che vuole pubblico, altrimenti è come scrivere “Guerra e Pace” per poi tenerlo nel cassetto».

Sul fronte delle discipline sportive: quali sono le più seguite e quali quelle che rischiano di più sul fronte della nuova comunicazione?

«In Italia c’è molto calcio, ma anche audience giovani che seguono gli sport esteri, soprattutto americani, con numerose fan base che non rimangono deluse, se si pensa all’NBA che ti fa vedere le partite ma ti mostra anche tutto il contorno ed è quello che fa funzionare l’ingranaggio; lo stesso accade con il football americano, come testimoniano le cifre di ascolto e visione legate all’ultimo Super Bowl. Anche tutto ciò che è paralimpico potrebbe essere ricco di opportunità, tra performance e il vivere lo sport in maniera inclusiva, si pensi alla figura e al ruolo giocato da Bebe Vio che ha aperto un mondo, andando oltre le diffidenze».