Autore: Redazione
18/01/2018

Open Influence, Influencer Marketing: Make or Buy?

Torna la rubrica sull'Influencer Marketing, in collaborazione con Open Influence. Questa settimana Karim De Martino, analizza la questione del “Make or Buy”, tema centrale nelle strategie di molte agenzie e clienti

Open Influence, Influencer Marketing: Make or Buy?

di  Karim De Martino  -  Karim@openinfluence.com  
Fare in casa o lavorare con un'agenzia

È questo l’eterno dilemma quando ci si rende conto che un servizio è importante per la nostra azienda, ma siamo indecisi se gestircelo in casa o affidarlo a un fornitore esterno. Nel caso dell’influencer marketing, parliamo di un servizio che spesso viene approcciato come estensione delle digital PR, quindi le opzioni sono ancora più ampie: “Lo gestiamo in casa? Lo affidiamo alla nostra agenzia PR? Alla nostra Digital Agency? A una società specializzata come Open Influence?”  Vediamo quali sono i pro e i contro.

Fatto in casa costa meno, ma...

La prima cosa che viene da pensare è che contattando direttamente gli influencer si risparmi, perché si “salta” l’agenzia e perché parlando direttamente con gli stessi si ottiene un prezzo migliore. Purtroppo questo è vero solo in parte, nel senso che un fattore da considerare è che la gestione degli influencer è un’attività complessa e time-spending. Per questo motivo vediamo sempre più spesso aziende che decidono di gestire internamente l’influencer marketing (anche importanti società internazionali) e che affidano il reach out dei loro ambassador agli stagisti, con l’intento di costruirsi un database nel minor tempo possibile. Quello che non considerano è che dall’altra parte il percepito dell’influencer, che di queste email ne riceve 100 al giorno, è che l’azienda in questione non sappia quello che sta facendo. Inoltre gli interlocutori privi di esperienza vengono spesso “raggirati” dagli influencer meno onesti, che gli vendono statistiche gonfiate a prezzi fuori mercato. In questi casi il presunto risparmio viene vanificato da una dispersione del budget. Negli ultimi mesi abbiamo visto influencer con audience completamente acquistate, lavorare per brand del lusso, della moda, del beauty, con un imbarazzo generale da parte di tutti gli addetti ai lavori che conoscono benissimo queste “trappole”. Ma se prima su questi profili vedevamo solo le tisane dimagranti o gli orologi da quattro soldi, ora si vedono brand di alto livello, che si giocano in pochi scatti il nome e la reputazione.

Nel caso in cui il brand investa invece risorse formate per navigare nel mare magnum degli influencer, e di bravi professionisti in giro ce ne sono tanti, soprattutto nelle società di digital PR, il problema è che spesso mancano a queste figure gli strumenti per valutare se le audience degli influencer sono coerenti con il posizionamento dell’azienda e del prodotto. Ed ecco quindi che gli influencer con cui le aziende lavorano sono sempre gli stessi, che un minuto prima annunciano la loro morning routine con una crema viso e il minuto dopo lodano i benefici del competitor, provano un’automobile il pomeriggio e partecipano all’evento di un brand alla sera.

Ridemensionato in parte il vantaggio economico, che tra impiego di risorse e dispersione del budget, viene spesso azzerato, rimane però vero che gestire direttamente gli influencer permette di avere un rapporto diretto personale. Ci sono società che hanno puntato al 100% sull’influencer marketing come Revolve o NA-KD, che proprio questa settimana ha annunciato di aver raccolto 45 milioni di dollari con un round di investimenti. Queste aziende hanno costruito nel giro di 2-3 anni degli imperi, senza investire un euro in media tradizionali, snobbando tv, radio e stampa e diventando brand globali. Mentre i marchi e gli ecommerce tradizionali guardano ancora all’influencer marketing come un canale “a performance” e si aspettano che per ogni euro speso ne entrino due, questi pionieri hanno costruito una brand awareness e innescato dei funnel di conversione che fanno tremare i retailer tradizionali. E per inteso, queste aziende non hanno una stagista che scrive agli influencer, ma dei team di 40-50 persone che passano le loro giornate a cercare, contattare, analizzare e attivare influencer in tutto il mondo.

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Lavorare con professionisti

Veniamo invece ai pro e contro del lavorare con agenzie specializzate e in particolare con quello che succede quando si lavora con Open Influence, per fare degli esempi concreti. La prima domanda che i clienti ci fanno è sempre “perché dovremmo lavorare con voi? Gli influencer sono lì su Instagram, su YouTube, su Facebook. Non mi conviene contattarli direttamente?”.

La prima risposta che diamo è “in bocca al lupo!”. Scherzi a parte, bisogna tenere conto che lavorare con influencer significa lavorare con persone, mantenere una relazione con loro (umana e professionale), gestendone i diversi aspetti, dalla stesura del contratto, al controllo dell’attività, fino al pagamento. Molte di queste attività vengono gestite da Open Influence con una piattaforma. Oltre al nostro motore di ricerca e analytics, di cui più volte abbiamo parlato, il grosso aiuto arriva nel processo di gestione. Il cliente può visionare le anteprime dei post online, accedere al calendario, tracciare i KPI su una dashboard, il tutto mentre uno staff di professionisti si occupa di redarre i contratti, negoziare i diritti di utilizzo e organizzare i pagamenti. Alcune campagne includono 80-100 influencer, vi immaginate per un ufficio interno di una grande azienda, dover registrare 100 nuovi fornitori, gestire le ritenute d’acconto e tutta la burocrazia?

Senza contare poi che nell’influencer marketing sono fondamentali la strategia, la creatività, l’esperienza. Mediamente in una campagna di successo vengono coinvolte 5-6 diverse figure professionali, per gestire tutto il flusso che va dall’idea creativa all’esecuzione, passando per tutti gli aspetti pratici e legali. Lavorare con un'agenzia fa quindi risparmiare tempo, ma anche denaro! E qui torniamo al discorso della selezione degli influencer. La tecnologia permette oggi di incrociare dati numerici (età, sesso e collocazione dei follower) con altri qualitativi come l’interesse verso determinati argomenti o addirittura la reazione alla presenza di determinati oggetti nelle immagini, come una tazzina di caffè, una persona che corre o un rossetto. Tentare di “mappare” gli influencer è un concetto ormai superato: i brand che pensano di poter creare delle liste con il nome dell’influencer, il numero di follower e il costo, fanno il grosso errore di non considerare l’unicità dell’influencer. Diciamo la verità, chi non ha pensato che lavorare con influencer significhi solo preparare un foglio Excel come fosse un listino prezzi? Beh questo è esattamente il modo migliore per buttare via tempo e denaro, oltre che distruggere la credibilità del proprio brand.

Non solo Open Influence

In questo articolo abbiamo chiaramente estremizzato tra le trappole di una soluzione “home made” e un servizio chiavi in mano offerto da chi fa esclusivamente questo di mestiere. Nel mezzo ci sono però una serie di scenari intermedi, come per esempio la creazione di un team interno che gestisca gli influencer, con l’aiuto di software dedicati forniti da terze parti, le famose piattaforme “self service”. Una sorta di via di mezzo tra il “make” e il “buy”, dove però l’azienda deve prevedere un investimento in termini di tempo e risorse economiche. Lavorando con gli influencer si impara a conoscere le dinamiche di questo mondo, le tipologie di interlocutori, i pro e i contro. Ma anche il più “smart” dei social media manager o PR deve poter avere accesso a una serie di dati che gli permettano di prendere le giuste decisioni, puntando su un influencer piuttosto che un altro, raggiungendo il proprio target piuttosto che disperdendo il budget della sua azienda con gli amabassador sbagliati. Lode quindi a chi decide di investire a fare crescere il mercato!