La condivisione dei dispositivi digitali: il gioco non vale la candela
Una problematica giornaliera che si rafforza soprattutto durante le festività e che può portare a danni economici, strategici e di immagine, sia che riguardi il singolo sia che colpisca una struttura aziendale. L’analisi e i consigli di Dario Maggiorini, giornalista e direttore di TechBusiness.it e professore associato dell’Università degli Studi di Milano
Dario Maggiorini
Condividiamo quotidianamente i nostri dispositivi digitali, smartphone, tablet o PC, e i rischi nascosti che ne derivano, tanto in ambito domestico quanto professionale soprattutto in vista delle vacanze di Natale con genitori (professionisti) e figli/parenti connessi alle stesse reti. Condividere strumenti è una pratica ormai quotidiana e usuale, soprattutto in famiglia o in ufficio. Si tratta di una comodità economica e pratica: un unico dispositivo può soddisfare le esigenze di più persone, come genitori e figli o colleghi. Ma quanti si soffermano a pensare alle tracce digitali che rimangono? Una semplice distrazione può portare all’installazione di virus o alla diffusione di informazioni personali e sensibili. E quando un dispositivo condiviso viene usato per lavoro, i rischi si estendono anche alle aziende. Ne parliamo con Dario Maggiorini, giornalista e direttore di TechBusiness.it e professore associato dell’Università degli Studi di Milano (ospite di DailyOnAir - The Sound Of Adv).
Quali sono i dispositivi maggiormente rischiosi quando si parla di condivisione?
«Prima di tutto, farei un distinguo sul tipo di condivisione, che può essere un prestito, magari in una situazione familiare, dove magari non ci sono le conoscenze per bloccare i possibili tranelli, tra phishing e malware, su dispositivi quali i cellulari, che contengono i nostri dati sensibili e freschi, ma anche PC, che potrebbero contenere archivi accumulati negli anni. Un secondo caso riguarda la condivisone di un dispositivo non nostro, magari il computer nella hall di un albergo oppure l’internet caffè, frequentato quando siamo in vacanza. Al di là del lasciare dietro di noi informazioni sensibili, bisogna considerare anche il fatto che i dispostivi possono risultare incustoditi. Il consiglio è non inserire informazioni personali o compromettenti, in nessun caso».
Quali sono i target, tra gli utilizzatori, maggiormente a rischio?
«Faccio fatica nel trovare qualcuno che sia maggiormente in pericolo, preferisco parlare di comportamento a rischio. Collettivamente, siamo di fronte ad attacchi alla sicurezza, e faccio un paragone con la pesca a strascico, attività nella quale vengono lanciate esche con la speranza che qualcuno abbocchi. Dalle evidenze che raccolgo tra aziende e persone, il rischio maggiore è prestare un computer o un telefono a un figlio per giocare, senza alcun controllo. I bambini azionano elementi a caso, dopotutto fa parte del processo nomale di apprendimento, e magari cancellano i blocchi di sicurezza, con risultati ormai noti: puoi cavartela con transazioni economiche indesiderate, ma altre volte le conseguenze possono essere ben peggiori».
Esiste qualche numero che quantifichi a dimensione degli errori, quanti sono soggetti a furti e manipolazioni?
«Esistono dati che periodicamente vengono rilasciati da aziende attive nel campo della cybersecurity, ma generalmente non si vuole fare troppo pubblicità su simili atti dolosi. Inoltre, per chi si occupa di sicurezza non è più questione di ‘se’ bensì di ‘quando’, una qualcosa che si è ingigantito dopo la pandemia».
Quanto rischiano le aziende?
«Moltissimo, gli utenti professionali sono depositari di dati riservati per la loro organizzazione, tra documenti commerciali e legali, presenti nella propria casella e-mail, senza dimenticare le password di accesso alle risorse strategiche dell’azienda. Se trafugati, simili documenti possono recare un danno significativo, tra aspetti tecnici e danni di immagine».
Come si comporta l’italiano medio sull’argomento e quanto può e potrà incidere l’età media piuttosto alta della popolazione nazionale?
«L’italiano si comporta bene sul fronte della sicurezza in Rete, come rilevato da una recente indagine di Cisco, siamo coscienti della problematica, ma si tratta di numeri che nella media si aggirano intorno al 50%, in crescita certo, ma non in maniera tale da certificare la totale sicurezza. I più giovani sono i più sensibili al tema, ma anche in questo caso non ci sono reali certezze, anche perché, per esempio, si potrebbe dire che i più anziani mettano in condivisione meno dati a rischio, che non poggino gran parte della propria attività all’interno di un telefono. E allora, il mio parere è che i veri rischi li subirà proprio l’attuale generazione più giovane: man mano che l’età andrà avanti, tra attenzione che cala in maniera fisiologica e le nuove scoperte, la GenZ sarà comunque convinta di saper gestire i possibili tranelli, ma il progresso va avanti e spesso ci lascia indietro, sena dimenticare il livello basso di scolarizzazione digitale. Certo, oggi come oggi, chi soffre di più sono i 50-60enni, che si trova spesso uno strumento difficile da capire in toto».
Come siamo messi in Italia rispetto al resto del mondo?
«Siamo nella media europea, non siamo fanalino di coda, anzi siamo maggiormente sensibili sulla protezione dei dati personali. Ma va fatta una considerazione anche sul gap delle competenze personali, in cui la protezione dei propri dispositivi personali è solo una piccola parte del problema».