Autore: Redazione
22/03/2018

Open Influence racconta il rapporto tra Influencer e i big della rete

Torniamo a parlare di Influencer Marketing insieme a Karim De Martino, che ricopre il ruolo di VP Business Development Europe a Open Influence

Open Influence racconta il rapporto tra Influencer e i big della rete

di  Karim De Martino    Karim@openinfluence.com   
Twitter, il pioniere

Dei grandi player del mondo social, Twitter è stato il primo a fare una mossa, acquisendo nel 2015 il network di Influencer Niche per circa 30 milioni di dollari. La società, fondata un paio d’anni prima (2013) raccoglieva al suo interno 6.000 influencer, prevalentemente attivi su Twitter e Vine, che in quegli anni era sulla cresta dell’onda. Successivamente alla chiusura di Vine, Niche ha allargato il suo spettro a tutti gli altri social, reclutando influencer di YouTube, Facebook e Instagram. Lo scorso anno, a marzo, gli influencer erano oltre 45.000. Nel luglio 2017 il co-founder Darren Lachtman ha lasciato Twitter-Niche e, stando ai media, in 4 anni Niche avrebbe generato oltre 200 milioni di revenue. Di fatto Niche è considerato negli States uno dei primi e principali player di questo settore, ma c’è da dire che la sua attività in Italia è stata praticamente nulla, soprattutto a seguito della chiusura degli uffici nel nostro Paese, nel novembre 2016.

YouTube, il partner

La piattaforma di video sharing di proprietà di Google ha da sempre puntato tutto sui contenuti generati dagli utenti e quindi sui creator stessi. YouTube ha offerto fin dall’inizio programmi di partnership per Influencer, offrendo un modello di business basato sulla monetizzazione delle views pagate dagli inserzionisti. I creator dunque possono avere una revenue da ogni dollaro incassato da Google e il modello simbiotico ha permesso uno sviluppo importante dell’influencer marketing su questa piattaforma. L’idillio è durato anni, fino ai primi mesi del 2018, quando YouTube ha aggiornato i propri algoritmi facendo registrare a molti influencer un crollo fino al 75% nei profitti. Molti hanno quindi ripiegato su modelli di monetizzazione differente, come l’inserimento di contenuti all’interno di video co-branded con le aziende. Questo sta spostando i budget delle aziende dagli MCN (Multi-Channel Network) ad agenzie multi-piattaforma come Open Influence, che lavorano a progetti di influencer marketing a 360 gradi.

Snapchat, lo snob

Il rapporto tra Snapchat e gli influencer non è mai stato roseo. Molti avranno sentito di quanto è successo a febbraio: Kylie Jenner ha scritto un Tweet che diceva “Sooo does anyone else not open Snapchat anymore? Or is it just me... ugh this is so sad” e le azioni di Snap hanno perso il 6% del valore in borsa, bruciando 1,3 miliardi di dollari. Sicuramente questa è la punta dell’iceberg di una relazione difficile a causa delle posizioni che Snapchat ha sempre assunto nei confronti degli influencer. Il founder Evan Spiegel ha sempre sostenuto che Snapchat è un'app che punta sugli utenti e i loro amici, non sugli influencer. Dopo il lancio di Instagram Stories dunque, molti influencer hanno abbandonato il social network snob, per gettarsi nelle braccia di Mark Zuckerberg, che è stato bravissimo a prevedere le loro esigenze e affinare gli strumenti a loro disposizione, trasformandoli in star. Solo di recente, a inizio 2018, la politica di Snapchat è cambiata e l’azienda ha messo a disposizione degli influencer un sistema di analytics con l’obiettivo di riconquistarli. Ci riuscirà?

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Facebook, il regolatore

Facebook (e di conseguenza Instagram che rientra sotto lo stesso cappello) si stanno muovendo sul mondo influencer in maniera molto interessante. Da una parte il social network sta inasprendo le sue policy per creare una netta distinzione tra quello che i brand possono fare con gli influencer e quello che invece deve ricadere nel media (la fonte di revenue di Facebook). Dal 1 marzo ad esempio c’è il divieto per gli influencer di farsi pagare per il re-post di contenuti forniti dal brand (ad esempio il trailer di un film o il flyer di un’offerta commerciale). Nello specifico Facebook chiede agli influencer di “Non accettare beni di valore per la pubblicazione di contenuti che non hai creato o dei quali non hai partecipato alla creazione oppure che non ti comprendono”. Questo significa che gli influencer che vorranno collaborare con le aziende dovranno pubblicare solo contenuti originali e non “markette”. Una buona notizia per le agenzie che come Open Influence fanno nella componente creativa e del processo di gestione delle campagne il loro punto di forza. Per i clienti interessati solo a distribuire un loro contenuto pre-confezionato rimane invece la strada dei post sponsorizzati. A questa “chiusura” si va però ad aggiungere l’apertura in un'altra direzione: a fine 2017 Facebook ha lanciato negli USA un tool per cercare Influencer, utilizzando i dati proprietari per analizzare le audience (sesso, età, interessi, reddito, posizione geografica). Il test è stato limitato agli influencer del mondo food e una volta che il cliente aveva individuato gli influencer poteva scegliere se contattarli direttamente o affidarsi a una serie di agenzie partner. Insomma, l’approccio rimanda a quello avuto con le agenzie che gestiscono pagine Facebook: non si tratta di un modello di business scalabile quindi Mark Zuckerberg non è interessato a entraci direttamente, ma piuttosto ad individuare dei partner con l’obiettivo che questo poi si trasformi in revenue, grazie alla sponsorizzazione dei contenuti prodotti dagli influencer.

Amazon, il commerciale

Il colosso dell’ecommerce ha da poco lanciato un programma di affiliazione dedicato esclusivamente a Influencer. Per accedere bisogna avere un certo numero di follower su Facebook, Instagram, YouTube o Twitter. Gli iscritti possono cercare, scegliere e promuovere una selezione di prodotti in vendita su Amazon e ricevere una provvigione sulle vendite. Un modello di business molto semplice e chiaro, che punta su gli influencer capaci di portare conversioni, piuttosto che sull’awareness che sono in grado di generare, senza la necessità di includere intermediari.

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