Ogury avverte: basta con gli inganni, che la data safety sia una priorità
Francesca Lerario, Managing Director Italy ripercorre con noi un anno ricco di cambiamenti: dalla trasparenza, all’aumentata diffidenza del consumatore, dalla “digital fatigue” al controllo della propria esperienza pubblicitaria, a un approccio più lungimirante
Francesca Lerario
Una corsa frenetica, un via vai generalizzato, ansioso, una competizione feroce per assicurarsi posti migliori della nuova Frontiera, qualunque essa sia. O meglio, fosse. Perché, nel mentre è arrivato lo stop, come un programma che si interrompe sul più bello. Un break di larghe dimensioni che porta a riflettere sul reale fascino dell’andamento di cui sopra. Tutto e subito a discapito di… Una filosofia malata che si ripresenta sotto mentite spoglie ogni tot di tempo, investe e ricalibra i vari settori, e li avvelena a poco a poco. Il nostro è la pubblicità, con la tecnologia che avanza, che invade, che non rispetta, che genera denaro, potere e poi infiniti guai, anche giudiziari. Privacy, consenso, dati, GDPR, tutele, consapevolezza, cultura, engagement, monetizzazione, massimizzazione, facilitazione. Ogury, leader mondiale della pubblicità mobile alimentata dalla scelta dell’utente (che ha lanciato nelle scorse settimane Thumbnail Ad, un nuovo formato pubblicitario, discreto e poco invadente per gli utenti e, al contempo, redditizio per i publisher che beneficiano del 100% di ricavi in più), di controllo dell’esperienza pubblicitaria se ne intende eccome. E così, mentre l’anno volge al classico tramonto, Francesca Lerario, Managing Director Italy del gruppo, ci offre una foto sua e dell’azienda su quello che abbiamo vissuto, provato, sperimentato e sulle possibili ripercussioni sull’anno che verrà.
Quali sono stati i trend principali della stagione?
«Per molto tempo, denaro, tecnologie e altre innumerevoli risorse sono state impiegate a sostegno della brand safety e protezione dalle frodi. Esiste tuttavia una minaccia ben peggiore: quella relativa ai dati tossici, ovvero tutti i dati raccolti o utilizzati senza l’esplicito consenso del consumatore. Il loro uso non è solo improprio, bensì illegale. Le normative sulla privacy, come GDPR e CCPA, stabiliscono che la raccolta, il trattamento o l’utilizzo dei dati senza il consenso dell’utente siano perseguibili per legge e punibili con multe salate. La fiducia è alla base di ogni buona relazione e questo vale anche nel rapporto brand-consumatore. Non incorrere in rischi legali, finanziari o di reputazione associati al dato tossico è essenziale per proteggere il proprio brand. In questa cornice, i marketer dovrebbero prendere seriamente in considerazione il concetto di data safety, pilastro oggi imprescindibile per avere successo. Secondo Gartner, entro il 2022 metà della popolazione mondiale vedrà le proprie informazioni personali tutelate da un regolamento simile alla GDPR. La frequenza, la severità delle sanzioni e le notizie sulla violazione dei dati sono destinate ad aumentare nei prossimi mesi e anni. Ecco perché crediamo che sia giunto il momento di fare della data safety una priorità».
Quanto è aumentata la consapevolezza dell’utente italiano rispetto ai dati e al consenso nell’ultimo periodo?
«Dalla nascita di internet, i dati dei consumatori sono sempre stati sfruttati per scopi pubblicitari. Per decenni l’industria ha tracciato i comportamenti dei consumatori e ottenuto informazioni personali senza il loro consenso. Inserzionisti e publisher non hanno potuto far altro che accettare la situazione. Ma i tempi sono cambiati. Negli ultimi due anni, grazie agli scandali sulla violazione dei dati e documentari come The Great Hack e The Social Dilemma, i consumatori hanno preso maggiore consapevolezza su come l’industria si sia impossessata delle loro informazioni. Questo spiega la diffidenza che oggi nutrono verso il settore, in particolare nei confronti di brand ed editori».
I sistemi di facilitazione tecnologica non mancano e voi nei siete tra i principali protagonisti, basta questo o servirebbe una vera immersione culturale nell’ambito?
«Nel 2035 le auto a benzina e diesel non saranno più vendute né prodotte perché ci saremo resi conto dei danni ambientali che hanno causato, e i governi saranno intervenuti per regolamentare la situazione. I produttori di veicoli avranno un’unica opzione per sopravvivere e stare al passo con il mercato: adattare il proprio business. Nel digital advertising una situazione simile è già in atto a un ritmo più veloce. Siamo giunti a un punto in cui il vecchio ecosistema ad-tech costruito sull’inganno e sulla poca trasparenza è destinato a scomparire. L’industria si è resa conto dei danni provocati dai dati tossici e i governi sono già intervenuti. Gli advertiser devono quindi necessariamente adeguarsi a questo nuovo scenario».
Francesca Lerario
Quale potrebbe essere la prossima innovazione/richiesta del mercato?
«La pandemia ha cambiato la vita e la quotidianità delle persone. Non è un segreto che il tempo speso online e davanti a uno schermo sia sensibilmente aumentato, ma ci ha fatto anche scoprire la cosiddetta “digital fatigue”. Fatica digitale indica quel senso di esaurimento e stanchezza che si prova nel trascorrere un tempo eccessivo di fronte a uno schermo. Oggi ne sentiamo tutti il peso, marketer compresi, ma è impensabile che tale fenomeno possa spazzare via tutti gli sforzi compiuti sino a oggi. Per combatterla è fondamentale generare un nuovo interesse nella pubblicità, utilizzando la creatività o lo sviluppo di nuovi messaggi. Uno dei modi migliori per rafforzare l’engagement è permettere ai consumatori di scegliere quali annunci vedere. Grazie a Video Chooser, il nostro nuovo formato proprietario, gli utenti possono decidere quale pubblicità li attrae di più. Crediamo fermamente che offrire agli utenti il controllo della propria esperienza pubblicitaria sia l’unico modo per passare da una pubblicità imposta a una pubblicità accettata».
Il 2020, la negazione della socialità e il computer/smartphone come migliori amici: quanto ha influito sul consumo e quindi sul mercato questa situazione?
«Durante il primo lockdown abbiamo notato una certa stabilità se non addirittura una crescita per alcuni servizi, in particolare quelli forniti tramite app, come il food delivery, strumenti per lo smart working o videogiochi. Poiché milioni di consumatori italiani hanno scaricato questo genere di applicazioni, come Ogury è per noi importante ricordare che gli utenti devono poter scegliere se condividere o rifiutare di cedere i propri dati per scopi pubblicitari. Tra i partner di Ogury ci sono inserzionisti, agenzie, ma anche editori. Con il calo dei budget pubblicitari, i publisher devono assicurarsi nuovi modi per costruire e monetizzare le relazioni con i propri lettori. Noi li aiutiamo a massimizzare i guadagni e il proprio spazio pubblicitario, indipendentemente dal flusso di utenti».
Ogury e l’anno che sta per finire: traguardi raggiunti, obiettivi, possibile chiusura?
«È stato un anno particolare e come per ogni altro player del mercato, anche noi siamo stati segnati dalla pandemia. Ci siamo immediatamente adattati alla situazione, dando vita a particolari attività che garantissero la stessa qualità e gli stessi servizi che forniamo abitualmente ai nostri partner. Ai nostri dipendenti abbiamo offerto fin da subito la possibilità di lavorare da casa, ma ad essere onesti non abbiamo dovuto adottare misure particolari, dal momento che Ogury ha sempre offerto la modalità di lavorare da remoto ai propri dipendenti. Dall’inizio di marzo il top management ha organizzato videoconferenze settimanali per aggiornare i 400 dipendenti sulla crisi e il relativo impatto sul business locale e globale. Come tante altre aziende, anche noi abbiamo visto un rallentamento nelle attività nel secondo trimestre, ma siamo riusciti a raggiungere i nostri obiettivi nei mesi successivi. Abbiamo anche lavorato a stretto contatto con le istituzioni, fornendo gratuitamente campagne di prevenzione, con Regione Lombardia in Italia e l’OMS in Messico. Questa profonda crisi ha avuto e avrà un impatto enorme sugli investimenti pubblicitari. A ogni modo, possiamo dirci più che fortunati: il finanziamento da 50 milioni di dollari ricevuto alla fine dello scorso anno ci ha offerto una posizione più solida rispetto alle start-up più giovani».
Su cosa lavorerete maggiormente durante il 2021?
«A livello nazionale, il nostro obiettivo è quello di continuare a far crescere i nostri uffici di Milano e Roma. Da un punto di vista globale, proseguiremo l’espansione internazionale, in particolare nel mercato asiatico. Dopo l’apertura del nostro primo ufficio in APAC (Asia Pacifico) a Singapore nel 2019, ad aprile di quest’anno abbiamo aperto una sede in Australia. Questa regione resterà chiave per tutto il 2021, soprattutto perché il tema della protezione dei dati sta diventando cruciale. Credo che questa crisi abbia dato al settore l’occasione per fare un passo indietro e concentrarsi su cosa sia davvero importante. Ci ha offerto l’opportunità di prenderci una pausa dalla routine quotidiana e fermare quella corsa frenetica verso i risultati e i profitti a breve termine. È un approccio che abbiamo sostenuto per molti anni in Ogury: pensare a lungo termine al fine di creare un ecosistema fidato che crei valore per utenti, brand e publisher».