L’nfluencer marketing non è più una moda, ma serve maggiore trasparenza
A rivelarlo è uno studio del WFA. Karim De Martino, VP Business Development Europe di Open Influence, commenta i risultati: «Per ottenere risultati dalle campagne servono trasparenza e professionalità»
Il 65% dei brand attivi a livello internazionale vuole incrementare la spesa in influencer marketing nei prossimi dodici mesi. L’obiettivo primario è aumentare la brand awareness 86%), ma gli influencer risultano strategici anche per raggiungere nuove audience (74%) e per migliorare l’advocacy (69%). È quanto emerge da uno studio condotto dalla World Federation of Advertisers (WFA) e rilasciato qualche giorno fa. Nonostante un sentimento generalmente positivo verso la disciplina, gran parte degli inserzionisti è preoccupato per la poca trasparenza: credibilità, reputazione e qualità dei follower sono i temi chiave che guidano la selezione di un influencer. In particolare, spiega la ricerca, in cima alla lista dei desideri degli spender figura la qualità dei follower, citata come “assolutamente essenziale” o “molto importante” dal 96% dei rispondenti. Credibilità e reputazione dell’influencer si fermano al 93%. I professionisti del marketing richiedono anche che la relazione con l’influencer venga chiaramente segnalata agli utenti e consumatori. L’indagine ha coinvolto 34 aziende che rappresentano 15 categorie merceologiche e investimenti marketing per 59 miliardi di dollari a livello mondiale. Tutti usano gli influencer per promuovere i propri prodotti sulla rete: il 46% lo fa “molto spesso”, mentre il 54% “solo occasionalmente”. Tra i modelli di pagamento spiccano l’utilizzo di una fee per post/video, lo scambio tra visibilità e prodotti e, ultimamente, poi, sono emersi pagamenti a performance. La WFA collaborerà con alcuni dei suoi membri, tra cui Unilever, che si è espressa chiaramente sulla necessità che gli influencer agiscano in modo etico, per utilizzare questa ricerca come base di partenza per la creazione di una guida con le best practices per assicurare che i brand di qualsiasi dimensione traggano il massimo dal settore. “L’influencer marketing sta diventando un canale chiave per molti inserzionisti, ma sarà veramente efficace se i consumatori potranno fidarsi di influencer che dichiarano le proprie relazioni commerciali. I marketer potranno fidarsi quando sapranno di raggiungere audience reali e non bot. Quest’area si è evoluta rapidamente e questa ricerca fornisce un punto di riferimento che rivela come i team di marketing e i loro partner esterni stiano gestendo il canale”, ha dichiarato in una nota Stephan Loerke, Ceo della WFA. “Questa ricerca dimostra come molte aziende del settore condividano le nostre preoccupazioni. Unilever apprezza le relazioni con gli influencer, ma abbiamo chiarito che lavoreremo solo con coloro che non comprano follower, in modo da essere sicuri di raggiungere un pubblico coinvolto attraverso solide partnership”, ha dichiarato Keith Weed, Chief Marketing & Communications Officer di Unilever.
Canale chiave
Il 65% dei brand attivi a livello internazionale vuole incrementare la spesa in influencer marketing nei prossimi dodici mesi. L’obiettivo primario è aumentare la brand awareness 86%), ma gli influencer risultano strategici anche per raggiungere nuove audience (74%) e per migliorare l’advocacy (69%). È quanto emerge da uno studio condotto dalla World Federation of Advertisers (WFA) e rilasciato qualche giorno fa. Nonostante un sentimento generalmente positivo verso la disciplina, gran parte degli inserzionisti è preoccupato per la poca trasparenza: credibilità, reputazione e qualità dei follower sono i temi chiave che guidano la selezione di un influencer. In particolare, spiega la ricerca, in cima alla lista dei desideri degli spender figura la qualità dei follower, citata come “assolutamente essenziale” o “molto importante” dal 96% dei rispondenti. Credibilità e reputazione dell’influencer si fermano al 93%. I professionisti del marketing richiedono anche che la relazione con l’influencer venga chiaramente segnalata agli utenti e consumatori. L’indagine ha coinvolto 34 aziende che rappresentano 15 categorie merceologiche e investimenti marketing per 59 miliardi di dollari a livello mondiale. Tutti usano gli influencer per promuovere i propri prodotti sulla rete: il 46% lo fa “molto spesso”, mentre il 54% “solo occasionalmente”. Tra i modelli di pagamento spiccano l’utilizzo di una fee per post/video, lo scambio tra visibilità e prodotti e, ultimamente, poi, sono emersi pagamenti a performance. La WFA collaborerà con alcuni dei suoi membri, tra cui Unilever, che si è espressa chiaramente sulla necessità che gli influencer agiscano in modo etico, per utilizzare questa ricerca come base di partenza per la creazione di una guida con le best practices per assicurare che i brand di qualsiasi dimensione traggano il massimo dal settore. “L’influencer marketing sta diventando un canale chiave per molti inserzionisti, ma sarà veramente efficace se i consumatori potranno fidarsi di influencer che dichiarano le proprie relazioni commerciali. I marketer potranno fidarsi quando sapranno di raggiungere audience reali e non bot. Quest’area si è evoluta rapidamente e questa ricerca fornisce un punto di riferimento che rivela come i team di marketing e i loro partner esterni stiano gestendo il canale”, ha dichiarato in una nota Stephan Loerke, Ceo della WFA. “Questa ricerca dimostra come molte aziende del settore condividano le nostre preoccupazioni. Unilever apprezza le relazioni con gli influencer, ma abbiamo chiarito che lavoreremo solo con coloro che non comprano follower, in modo da essere sicuri di raggiungere un pubblico coinvolto attraverso solide partnership”, ha dichiarato Keith Weed, Chief Marketing & Communications Officer di Unilever.
Altri risultati chiave
• Instagram è la piattaforma più popolare ed è usata dai 100% dei rispondenti, con Facebook secondo all’85%, YouTube al 67%, Snapchat al 44%, Twitter al 33%. WeChat e Pinterest si fermano al 19%.
• I KPI più rilevanti per la valutazione delle attività degli influencer sono reach e views (96%), engagement (80%), traffico generato (44%) e altri earned media (44%).
• Le preoccupazioni sui rischi connessi alla gestione degli influencer si sono concentrate su quattro aree: la fiducia dei consumatori sono state citate come “molto preoccupanti” e “preoccupanti” dal 64% degli intervistati, i rischi legali e finanziari dal 60%, i rischi di reputazione dal 64% e i rischi per la sicurezza del marchio dal 59%.
• Gran parte delle attività di identificazione e gestione dell’influencer è stato esternalizzato. Il 64% utilizza partner esterni per trovare influencer rilevanti e il 63% li usa per gestire la partnership.
L’intervista a Karim De Martino
DailyNet ha intervistato Karim De Martino, VP Business Development Europe di Open Influence, per analizzare i risultati della ricerca e inquadrare il momento dell’influencer marketing anche nel nostro Paese.
A che punto siamo con la trasparenza, siete d’accordo con i dubbi che attanagliano gli inserzionisti pubblicitari?
Come pionieri dell’influencer marketing abbiamo visto letteralmente “esplodere” questo mercato negli ultimi anni. La velocità e le opportunità economiche hanno fatto sì che player poco professionali approcciassero l’influencer marketing, approfittando della poca consapevolezza da parte dei brand di tutte le dinamiche nascoste (acquisto di follower, bot, engagement gonfiato). Molti nostri clienti sono stati approcciati da realtà (spesso convertite all’influencer marketing da precedenti esperienze di gestione talent, PR o organizzazione eventi) che offrivano grandi fanbase a prezzi stracciati, questo già avrebbe dovuto fare dubitare dell’autenticità di ciò che si stava comprando: numeri e non contatti reali. Dall’altra parte c’è stato anche un “boom” delle piattaforme self-service: una utopia perché proprio dallo scarso controllo di questi servizi è arrivata una orda di finti influencer pronti a collaborare con i brand dopo aver “comprato” qualche migliaio di follower e aver aperto un conto PayPal. Non a caso queste società per sopravvivere si stanno spostando più verso il modello di business di Open Influence: campagne gestite da professionisti con l’utilizzo di tecnologie proprietarie per garantire la migliore affinità degli influencer con i brand e la loro autenticità. Il danno che però negli ultimi anni è stato causato al settore è evidente: se non c’è trasparenza e professionalità, le campagne non ottengono i risultati sperati e questo non è un danno solo per il cliente, ma per tutti i player coinvolti, inclusi gli influencer veri. Quello che stiamo vedendo ora è l’atteso “colpo di spugna”, finalmente!
Tra le varie piattaforme si nota l’assoluto predominio di Instagram, ci sono altre opportunità?
I dati presentati da WFA trovano riscontro nella nostra esperienza diretta. Instagram rimane il canale per eccellenza grazie alla sua diffusione e alla facilità con cui si può ottenere engagement genuino. Facebook rappresenta una grossa opportunità per la visibilità, ma quando un cliente cerca interazioni spontanee le trova più facilmente altrove. Se parliamo invece di amplificazione con paid media, Facebook la fa da padrone. In USA poi va segnalato che Snapchat, Pinterest e Musical.ly hanno su determinate fasce dei risultati strepitosi e per questo li utilizziamo spesso. Ci piace dire che Open Influence ha un approccio “agnostico” nei confronti dei social network: non c’è uno migliore o peggiore. Il pubblico di riferimento di un brand può seguire un Instagrammer, uno YouTuber e un profilo Pinterest, quello che farà la differenza per le società di influencer marketing sarà la possibilità di ricercare e raggiungere il giusto pubblico a prescindere dalla piattaforma.
Sempre più brand si stanno dotando di partner esterni, quali sono i principali vantaggi di un approccio del genere?
Rispondo con una domanda: può un’azienda gestire internamente la realizzazione creativa di una campagna stampa, radio e TV e la sua pianificazione? Sì, se al suo interno ha le figure professionali e gli strumenti tecnologici per farlo. Con l’influencer marketing vale la stessa regola: per alcune multinazionali con decine di brand è essenziale dotarsi di strumenti interni e persone dedicate, affrontando dei costi che sono giustificati da volumi. Per altri clienti, invece, lavorare con un partner come Open Influence significa avere accesso a una tecnologia evoluta, un team di professionisti che conoscono il mercato e le sue dinamiche, un know-how di best practice, case study e, importantissimo, errori già commessi che si è imparato a evitare. Facciamo un esempio pratico: un cliente può investire 100.000 euro e: 1) sbagliare la target audience degli influencer perché non ha accesso ai dati socio-demografici; 2) cadere nella trappola di fake follower; 3) fare una cattiva negoziazione perché non conosce gli standard di mercato o ha una leva economica inferiore a noi. Dei 100.000 euro iniziali magari solo il 20% va effettivamente a raggiungere gli obiettivi del brand. Lavorando con un’agenzia invece si ha la garanzia che l’80% contribuisca all’obiettivo e il 20% ripaghi il lavoro l’agenzia: è un win-win per tutti.
Avete avuto colloqui con qualche associazione?
In Italia, Open Influence ha un dialogo costante con l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), in quanto riteniamo che soprattutto nel nostro Paese quello della scarsa trasparenza nel dichiarare le collaborazioni sia un grave problema. Su questo tema bisogna fare tanta educazione, ad ogni livello della catena: influecer, agenzie e clienti finali devono essere consapevoli e applicare le regole. Open Influence fornisce anche un supporto educativo da questo punto di vista, con seminari gratuiti alle aziende che ne fanno richiesta.