ADS, nel mirino le diffusioni di copie digitali multiple
La pubblicazione dei dati è a rischio: il Gruppo Condé Nast contesta le vendite in blocco online a cui non corrisponderebbero effettivi download
Carlo Mandelli
Incomincia decisamente in salita il mandato di Carlo Mandelli alla presidenza di ADS, iniziato qualche giorno fa. In seno alla società degli Accertamenti Diffusione Stampa è infatti scoppiata una grana di non poco conto e che avrà con tutta probabilità il suo primo impatto sui dati di prossima pubblicazione relativi agli andamenti di aprile per quotidiani e settimanali e di marzo per i mensili. Questi dati, salvo recuperi dell’ultima ora, probablmente non usciranno del tutto; oppure, se pubblicati, potrebbero risultare privi dei riscontri sulle copie digitali multiple. La Condé Nast ha infatti sollevato una questione che riguarda i segmenti in cui opera, richiamando l’attenzione sull’”inquinamento” che una gestione ritenuta per lo meno disinvolta di questo canale di diffusioni genera e può generare a discapito della condivisione di regole condivise di corretta concorrenza. Prima di tutto, bisogna chiarire che, per copie digitali multiple, si intendono quelle acquistate in blocco (per lo più da un intermediario) per la successiva messa a disposizione degli utenti finali che possono scaricarle tramite download. L’editore, cioè, non vende le copie, in questo caso, a singoli lettori-utenti, ma a un’azienda terza che di solito opera attraverso un network di distribuzione. Il regolamento di ADS specifica inoltre che “il prezzo di vendita di ciascuna copia digitale dev’essere almeno pari al 30% del prezzo di vendita dell’edizione cartacea e che sono certificabili solo le copie corrispondenti a utenze attivate verificabili”.
Ovviamente, ci possono essere transazioni dirette tra l’editore e una controparte interessata a questo tipo di acquisto, così come si può pensare che possano essere ad esempio una banca o un’associazione. Ma in altri casi, gli intermediari possono “vendere” all’editore la capacità di diffondere le copie attraverso altri canali. In pratica, questa differenza è il guadagno dell’intermediario, ma anche il prezzo che l’editore paga per assicurarsi la diffusione di un certo numero di copie. Il numero di queste ultime andrà a sommarsi a quelle diffuse tramite gli altri canali per definire il dato complessivo certificato da ADS e sulla cui base l’editore andrà a stabilire il costo della pubblicità. Il citato regolamento specifica anche che “sono certificabili esclusivamente le copie corrispondenti a utenze verificabili”, insomma che siano state realmente scaricate dall’utente finale.
L’esperienza di Condé Nast
Un esperimento fatto dalla società di cui è presidente e a.d. Gianpaolo Grandi ancora nel 2014 con uno di questi operatori, per l’esattezza PPublishing, società del Gruppo Johnsons licenziataria per il mercato italiano del circuito di distribuzione digitale “Media Box”, di proprietà della tedesca Media Carrier, ha però messo in evidenza che i downloads effettivi delle copie vendute - contrariamente ai dati poi rilasciati da Johnsons e quindi certificati da ADS - sono risultati bassissimi, nell’ordine dello 0,42%. In pratica, ci sono stati 42 contatti reali ogni 10.000 “certificati”. Per Condé Nast, che avrebbe “investito” anche Upa del problema, si tratterebbe di un sistema distorsivo, che genera dati di vendita complessivi falsati e alterati.
Cosa potrebbe succedere?
Come palese esempio, il gruppo editoriale indica che proprio all’interno del segmento dei periodici ce ne sarebbero sei, riferibili allo stesso editore, ad aver dichiarato una quantità di copie digitali multiple (certificate, quindi, ADS) abnorme e irrealistica, pari a oltre il 25% delle copie totali diffuse, quando l’incidenza media per tutti gli altri periodici è dello 0,3%. Condé Nast non fa nomi, anche perché l’obiettivo è porre una questione di metodo, ma non è difficile, osservando le tabelle ADS, dedurre che si tratti di Hearst Magazines Italia. In pratica, quest'ultima casa editrice, a tutti gli effetti tra i concorrenti diretti dell’altro editore americano, starebbe vendendo al mercato un totale diffusioni dei periodici in questione che ne include un quarto rappresentato da quelle digitali multiple.
Hearst Magazines Italia, contattata da DailyMedia, si dichiara “serena sulla convinzione che anche le copie dei nostri giornali diffuse con questa modalità siano effettivamente aperte dagli utenti”. La ricerca di una soluzione in termini di controlli da parte di ADS sarebbe stata affidata a Reply. La sospensiva della componente copie digitali multiple adottata lo scorso 18 maggio potrebbe, quindi, essere rimossa, come detto, già dalla pubblicazione dei prossimi dati con l’adozione di un regolamento più stringente. Al contrario, se tutto restasse invariato (scongiurando, comunque, l’ipotesi che tutto il sistema diffusionale venga congelato), ciò produrrebbe una non indifferente ripercussione anche su altre prestigiose testate quotidiane, prima tra tutte Il Sole 24 Ore, che perderebbe dal computo circa 110.000 copie, anche se, probabilmente, frutto di vendite digitali multiple verificabili, scendendo da 382.000 copie diffuse complessive (dati di marzo 2016) a 270.000, ma mantenendo comunque la leadership a livello digitale grazie al primato in quelle singole vendute più le abbinate. Stesso discorso per Italia Oggi, che perderebbe 15.000 copie su 54.000 ma che, intuitivamente, potrebbe avere anch’esso un’alta incidenza delle multiple digitali proprio per i target cui si rivolge, presumibilmente simili se non analoghi a quelli del quotidiano confindustriale.